Donald Woods Winnicott nasce a Plymouth il 7 aprile 1896 e muore a Londra il 28 gennaio del 1971. Winnicott si laureò nella prestigiosa università di Cambridge nel 1923 in medicina. Nello stesso anno iniziò un percorso di analisi con James Strachey, traduttore inglese delle opere di Freud. Divenuto psicoanalista, entrò nella Società Psicoanalitica Britannica, dove proseguì la sua analisi con Joan Rivière, psicoanalista di impostazione kleniana. Come medico si dedicò alla pediatria per circa quarant’anni, lavorando presso l’ospedale pediatrico di Paddington Green, acquisendo una ricchissima esperienza clinica. Winnicott inizialmente abbracciò le teorie della Klein circa il rapporto madre-bambino, per poi discostarsene entrando nel gruppo degli indipendenti britannici o anche definiti come il Middle Group (gruppo di mezzo). Viene considerato uno dei pionieri della cosiddetta scuola delle relazioni oggettuali. La sua professione di pediatra gli permise di osservare per un lungo periodo i bambini e le interazioni con le madri, consentendogli così di elaborare originali teorie sullo sviluppo psicologico ed emotivo del bambino.
Winnicott introdusse il termine di Holding per definire la capacità della madre di fungere da contenitore delle angosce del bambino. Holding assume il significato di capacità di contenimento della madre sufficientemente buona, la quale sa istintivamente intervenire per dare amore al bambino e sa quando mettersi da parte, nel momento in cui il piccolo non ha bisogno di lei. All’interno dell’holding il bambino può sperimentare quello che Winnicott definiva l’onnipotenza soggettiva. L’onnipotenza soggettiva è la sensazione di essere lui, il bambino, con i suoi desideri, a creare ogni cosa. Questa esperienza è una tappa necessaria ed indispensabile per il sano sviluppo dell’individuo e può verificarsi soltanto all’interno di uno spazio fisico e psichico che possa permettere la sua espressione.
Winnicott teorizza che il bambino inizialmente viva in una realtà costruita soggettivamente, dove tutto, compresa la madre, è sotto il suo controllo onnipotente, e la definirà onnipotenza soggettiva. In questa realtà il bambino crede di costruire la madre con i suoi desideri, gradualmente dovrà abbandonare questa visione edonistica per abbracciare una visione dello spazio oggettivo condiviso, dove la madre esiste indipendentemente dalla sua volontà. Winnicott descrive una terza forma di realtà del bambino che chiamerà spazio transizionale, costruito soggettivamente e percepito oggettivamente. L’esperienza transizionale, avendo le caratteristiche di entrambe le forme di realtà, permette al bambino di spostarsi verso una realtà oggettiva condivisa senza rimanerne traumatizzato. Egli descrive l’esperienza transizionale come una sorta di luogo psichico dove il bambino può giocare creativamente, per questo motivo associa le esperienze culturali umane alle esperienze transizionali. Lo spazio transizionale non consiste solo in una fase evolutiva dello sviluppo umano, ma è anche lo spazio potenziale tra individuo e ambiente, in cui si modella ogni forma di processo mentale creativo. Questo permetterebbe di sviluppare un’autonomia riflessiva personale e di cogliere l’opportunità di dare un nuovo e personale senso alla propria esistenza, partendo dalle pregresse esperienze sociali e culturali.
All’interno dello spazio transizionale acquista notevole importanza l’oggetto transizionale. Per oggetto transizionale si intende un oggetto, generalmente di qualità tattile-pressoria, come ad esempio un lembo di coperta, un peluche, che viene acquisito dal bambino per aiutarlo nel suo sviluppo psicologico. L’oggetto transizionale diviene il primo oggetto assimilato dal bambino come “non-me”, tale oggetto, rappresentando l’unione con la madre, permette anche il distacco e l’autonomia da essa, processo definito come individuazione-separazione dalla Mahler. L’oggetto transizionale permetterebbe, senza traumi, il passaggio dallo stadio dell’onnipotenza soggettiva a quello della realtà oggettiva, condivisa attraverso una rappresentazione pre-simbolica dello spazio transizionale, spazio dove la madre non è né costruita soggettivamente né esistente oggettivamente. L’oggetto transizionale non è quindi né percepito onnipotente né come appartenente alla realtà oggettiva, dato che si trova in uno spazio di mezzo, situato tra il Sé e il non-Sé.
Winnicott definisce madre sufficientemente buona, quella madre che in maniera istintiva, possiede le capacità di accudire il bambino dosando opportunamente il livello della frustrazione che gli infligge. Essa possiede la cosiddetta preoccupazione materna primaria, uno stato psicologico indispensabile affinché possa fornire le cure adeguate al piccolo e che le permetta di “fornire il mondo” al bambino con puntualità, facendogli sperimentare l’onnipotenza soggettiva. La madre sufficientemente buona sa come presentare il mondo al bambino, quando accudirlo, come frustrarlo, facendo sì che il suo sviluppo proceda senza traumi.
Per Winnicott la madre non sufficientemente buona è quella madre, in genere, affetta da psicopatologie depressive o simili, che fornisce al bambino cure senza creatività, in maniera meccanica. Con una madre non sufficientemente buona, il bambino smetterà di vivere nell’illusione che sia lui a creare e distruggere gli oggetti e vivrà in un mondo, presentatogli dalla madre, al quale egli dovrà essere accondiscendente bloccando così la creatività nascente. In questo caso, anziché la madre ad adattarsi al piccolo sarà il piccolo a doversi adattare alla madre o all’eventuale caregiver.
La madre non sufficientemente buona potrebbe distruggere in maniera traumatica l’esperienza dell’onnipotenza soggettiva del bambino, favorendo in particolare lo sviluppo di un falso Sé o del doppio legame.
Il falso Sé per Winnicott indica le situazioni nelle quali il paziente avverte un pesante senso di inutilità soggettiva, di non esistenza. Il falso Sé deriverebbe da un rapporto primario madre-bambino insoddisfacente, dove la madre non è stata in grado di rispondere in maniera soddisfacente ai bisogni del bambino. Nel caso specifico non si parla tanto di bisogni fisiologici, ma dei bisogni di crescita, di onnipotenza, di creazione e distruzione dell’oggetto. Inizialmente è importante che il bambino sperimenti l’onnipotenza soggettiva, vivendo nell’illusione di essere lui a creare e distruggere la madre. Solo successivamente, grazie all’esperienza dell’oggetto transizionale, potrà muoversi verso un terreno di realtà condivisa, meno egocentrica. Sono le frustrazioni ottimali, quelle dispensate da una madre sufficientemente buona, che permetteranno al bambino di crescere senza traumi. Quando la madre non sufficientemente buona interrompe bruscamente l’onnipotenza soggettiva del bambino, impedisce la crescita del vero Sé, formando così un falso Sé, privo di energia soggettiva, fatto di accondiscendenze, non creativo.
Il vero Sé è quello nato dal normale superamento dell’onnipotenza soggettiva, rimane come base del vero nucleo della personalità, fonte di energia dalla quale si sviluppano gli aspetti periferici della personalità. Da ciò si deduce che il falso Sé viene a configurarsi come una patologia legata ad un deficit presente nell’ambiente del bambino, ad una carenza nelle cure materne, passando così da una teoria del conflitto, tipica della psicoanalisi freudiana, della psicologia dell’Io e delle teorie kleiniane, ad una teoria del deficit, che presuppone l’assenza o la carenza di importanti elementi dello sviluppo.
Nella presente trattazione, in particolare nei primi capitoli, la scoliosi viene definita una patologia prettamente biomeccanica ad eziologia sconosciuta. Analizzando la problematica, la domanda che sorge è perché questa deformazione del rachide venga scoperta solo intorno agli otto anni di età, con un peggioramento progressivo nell’adolescenza. Una possibile risposta si avrebbe se ipotizzassimo che l’insorgenza della scoliosi abbia un’origine di tipo psicologico. Questa deduzione viene da una serie di “prove indiziarie”, come in una indagine poliziesca, che fanno sorgere un ragionevole dubbio sulle cause della patologia. Iniziamo a dare un senso al termine di scoliosi idiopatica. La definizione scoliosi idiopatica indica una causa scatenante di origine ignota, sconosciuta. Continuando nella nostra indagine, nei capitoli precedenti sono state raccolte una serie di “deposizioni” o “prove indiziarie”, sulle possibili cause della scoliosi, senza peraltro arrivare a delle conclusioni soddisfacenti. Rimanendo nel contesto investigativo, la prima prova indiziaria viene da un ritrovamento di uno scheletro avvenuto in Inghilterra nel 2012. Il giallo si infittisce se lo scheletro appartiene ad un monarca deceduto alla fine del 1400. Il re in questione è Riccardo III, ultimo re dei Plantageneti.
Come già accennato nella presentazione, il 25 agosto 2012, in un parcheggio della cittadina inglese di Leicester venne ritrovato uno scheletro presumibilmente appartenente al Re Riccardo III d’Inghilterra, ultimo re dei Plantageneti.
La certezza che lo scheletro ritrovato fosse realmente del monarca si ebbe nel febbraio 2013, grazie ad un esame del DNA comparato con gli ultimi due discendenti della casa di York, eseguito dagli studiosi dell’Università di Leicester. Re Riccardo III al momento del ritrovamento presentava una scoliosi di notevole importanza, come possiamo vedere dalle foto allegate.
Riccardo III fu allontanato dalla madre all’età di 8 anni, questo evento risulta di notevole importanza per la trattazione in oggetto, in quanto è fonte di riflessione in riferimento alle teorie dell’attaccamento di Bowlby, della Ainsworth e di Winnicott, precedentemente affrontate. Durante l’adolescenza Riccardo III sviluppò una forma di scoliosi idiopatica, periodo coincidente con il suo definitivo allontanamento dal contesto familiare. La scoliosi di Riccardo III era situata nella regione toraco-lombare, a curva unica, destro convessa.
La prima fanciullezza e la successiva adolescenza di Riccardo III suggeriscono delle riflessioni sulle possibili condizioni psicologiche. Ricordiamo che Riccardo III fu strappato dalla madre all’età di soli 8 anni, purtroppo non sapremo mai come visse questo distacco, ma ipotizziamo che possa aver vissuto questa separazione con una forma di “comportamento da evitamento”. Sappiamo che l’evitamento è una strategia difensiva, che permette ad una persona di non entrare in contatto con ciò che le induce ansia. Nei bambini studiati dalla Ainsworth nella Strange Situation, al comparire della madre, si voltavano dalla parte opposta, evitando lo sguardo del caregiver. Riccardo III potrebbe aver sviluppato la scoliosi per la somatizzazione di una forma di “atteggiamento da evitamento”, provocata dagli eventi stressanti dovuti alla morte del padre e il conseguente allontanamento dalla madre.
A tal proposito è utile rammentare gli studi di Bowlby in merito al distacco dei bambini dalla figura materna o dal caregiver. Bowlby descrive con molta accuratezza i problemi che si innescano in alcuni bambini a causa di un distacco precoce e traumatico dalla figura materna/accudimento.
Proseguendo le nostre indagini, passiamo al secondo caso: l’improvviso peggioramento di una scoliosi idiopatica di una ragazza quindicenne. La ragazza in oggetto, che chiameremo Alfa, all’epoca frequentava da circa 2 anni un programma sperimentale di rieducazione motoria per le scoliosi con il sottoscritto. I risultati ottenuti erano stati di notevole valore, in quanto la curva scoliotica era diminuita di circa il 50%, passando dai circa 47° Cobbs (15° Bunnel) ad una curva di circa 16° Cobbs (4° Bunnel). Questo successo si può facilmente evincere dai dati di seguito riportati:
Di seguito la descrizione di come si siano svolti gli eventi:
“Alfa non partecipava come al solito, si presentava irritata, distante, come assorta nei suoi pensieri e a volte sembrava che stesse sul punto di piangere. Durante l’esecuzione degli esercizi notai una maggiore rigidità muscolare, ma la cosa che attrasse maggiormente la mia attenzione fu il gibbo, nuovamente ricomparso in maniera preponderante. Interruppi la lezione e iniziai il controllo del gibbo di tutti i partecipanti. Arrivato il turno di Alfa, vidi con sommo stupore che la curva scoliotica era tornata quasi ai livelli iniziali. Continuai la lezione come se non fosse successo nulla, aspettando la fine della stessa per chiederle cosa avesse. La ragazza mi confidò che era stata lasciata dal suo “fidanzato”, e la cosa che le faceva più male era il fatto che fosse stata “abbandonata”. Per tutto il giorno riecheggiarono nella mia mente quelle parole: “...mi sento disperata, sono stata abbandonata...”. Mi chiedevo come fosse possibile che una ragazza di 15 anni, con una famiglia che la seguiva, che si occupava di lei, che l’amava profondamente, provasse una così grande disperazione per essere stata lasciata dal fidanzato. Ma la cosa più sconvolgente era il netto peggioramento del gibbo scoliotico. Altro atteggiamento di Alfa che mi fece riflettere fu nella sua postura, mi parlava stando con il volto e il busto di lato, come se volesse evitarmi, all’inizio pensai che fosse per vergogna. Decisi che la volta successiva avrei cambiato tipo di lezione. Cambiai gli esercizi facendo lavorare i ragazzi in gruppo, consentendo loro di parlare. Questo sprone alla socializzazione, la maggiore attenzione rivolta dagli altri ragazzi ad Alfa ebbe l’effetto incredibile di far tornare il suo gibbo ai valori precedenti nel giro di pochi giorni. Dopo qualche settimana, a fine lezione, parlai ad Alfa chiedendole come si sentisse, non fu di molte parole, mi disse semplicemente che stava bene, ma la sua postura era sempre sfuggente, non dipendeva dalla vergogna, ma era un suo atteggiamento. Notai questo stesso atteggiamento in tutti i ragazzi con scoliosi idiopatica. Da quel giorno cambiai completamente il modus operandi nella gestione della lezione, incentrandola non più solo sull’aspetto prettamente biomeccanico, ma dando spazio alla persona, alle emozioni”.
Se due indizi non creano una prova, instillano però un ragionevole dubbio. I fatti precedentemente descritti suscitarono in me delle profonde riflessioni conducendomi ad un approccio diverso nei confronti della scoliosi. Non potevo più vedere la scoliosi solo come un problema “struttale” e/o “biomeccanico”. Era necessario considerare la persona nella sua globalità con i suoi vissuti, le sue esperienze, interpretare la postura come la “narrazione di un romanzo personale”, e valutare l’insorgenza della scoliosi come il manifestarsi di qualcosa di più radicato. La cosa che mi colpì maggiormente fu che la scoliosi non fosse mai stata affrontata né studiata in ambito psicologico e psicosomatico. Freud parlò di “scoliosi isterica”, descrivendo l’isteria come espressione di conflitti psichici nati dal blocco dell’energia affettiva causata da eventi dolorosi. Freud abbandonò quasi subito l’ipotesi che nel bambino potesse insorgere una scoliosi di tipo isterico, in quanto uno dei suoi maestri, Charcot, rifiutava l’idea che nei bambini potessero presentarsi atteggiamenti isterici. Altro maestro di Freud, che studiò le forme isteriche nei bambini, fu Heuyer nel suo libro “Le problème de l’histérie chez l’enfant”. Heuyer teorizzò che l’isteria in generale e la scoliosi isterica fossero delle patologie rare nei bambini. Egli affermò che potessero presentarsi due casi di scoliosi isterica, uno determinato da imitazione e l’altro per condizioni affettive. A tal proposito Heuyer scrive:
“Le condizioni affettive. È sempre in coincidenza con un disturbo affettivo, prodotto sia da una emozione diretta (paura, collera), sia da un sentimento di simpatia o di antipatia verso una persona dell’ambiente abituale, che il bambino, utilizzando le sue osservazioni precedenti o abbandonandosi alla propria creazione immaginativa, realizza uno stato psicoplastico, fonte principale di preoccupazione per la persona che lo interessa”.
Queste poche righe sono di notevole importanza sia dal punto di vista psicologico che psicoanalitico, in quanto si prestano a diverse interpretazioni, si potrebbe anche intendere lo “...stato psicoplastico...” come condizione psicosomatica. La frase “...abbandonandosi alla propria creazione immaginativa, realizza uno stato psicoplastico, fonte principale di preoccupazione per la persona che lo interessa...”, rafforza le ipotesi formulate nei due precedenti casi, la creazione immaginativa del concetto di abbandono e di evitamento, con la possibilità di somatizzazione. Freud definì come “conversione isterica” tutti quei fenomeni che rientravano in un discorso di psicosomatica. Riteneva si collocasse nell’ambito delle nevrosi, come descritto nel suo libro “Introduzione allo studio della psicoanalisi”. A tal proposito Freud scrive:
“La ragione che fa ammalare queste persone è il rifiuto imposto loro in un modo qualsiasi dalla realtà, alla soddisfazione dei propri desideri sessuali. I sintomi vanno pertanto considerati come soddisfazioni fittizie, sostitutive di quelle reali mancanti nella vita”.
Freud nel celebre caso di Anna O. fa una descrizione molto dettagliata del sintomo di conversione isterica:
“...presentava una paralisi rigida di entrambe le estremità del lato destro con insensibilità delle medesime...”, continua: “...per interpretare questa sintomatologia ci si vedeva spinti a supporre che la malattia fosse insorta per il fatto che gli affetti sviluppati nella situazione patogena era sbarrata una via d’uscita normale e che l’essenza della malattia consistesse nel fatto che questi affetti strozzati sottostavano ad un impiego abnorme; in parte continuavano a sussistere come oneri permanenti della vita psichica e fonti di continua eccitazione per la stessa, in parte subivano una trasmutazione in innervazione ed inibizione somatiche, inconsuete che si presentavano con i sintomi somatici del caso”.
Freud aveva individuato come le parti psichiche e somatiche fossero strettamente correlate ed interagenti l’una con l’altra. È di notevole importanza per la presente trattazione ciò che Freud intendesse per conversione isterica, cioè uno stato di eccitazione mentale identificabile con una immagine o una rappresentazione, diretta o mnestica, la quale venga orientata verso innervazioni somatiche. Freud riteneva che le immagini mentali potessero agire direttamente sul sistema nervoso e di conseguenza sulla muscolatura provocando dei veri e propri blocchi motori ancor prima che i primi studi miografici lo confermassero. Sempre Freud riteneva che le immagini mentali facessero parte dell’istintualità della persona, la mente è come una spugna in cui le informazioni vengono assorbite ed elaborate, il più delle volte, senza interessare l’Io.
Freud, nei “Tre saggi sulla sessualità” definisce l’istinto come: “...una corrente continua di stimoli proveniente dall’interno del corpo”. Purtroppo, non abbiamo trattazioni attribuibili al padre della psicoanalisi sulla patologia scoliotica. La scarsa importanza che Freud dedicò al disturbo scoliotico è ravvisabile nel fatto che egli non si dedicò mai alla psicoanalisi dei bambini, ad eccezione del “Il caso del piccolo Hans”, caso peraltro non seguito direttamente da lui. La psicoanalisi dell’epoca non era ancora matura per analizzare un disturbo “marginale” come la scoliosi; infatti né Anna Freud né Melanine Klein si occuparono di questo aspetto, ma gettarono le basi per comprendere la strutturazione della mente dei bambini.
Tra vari autori, che si sono susseguiti nello studio dei disturbi di tipo psicosomatico, incontriamo Groddeck. Groddeck, come visto nel paragrafo a lui dedicato, si interessò di psicosomatica. Per Groddeck l’inconscio non parla soltanto in sogno ma si esprime anche per mezzo di un gesto, nel corrugarsi della fronte, nel battere del cuore. Ogni sintomo è un simbolo, il messaggio di un malessere più profondo che dovrebbe essere tradotto e portato alla coscienza. Iniziarono così a delinearsi le linee guida della psicosomatica. Ma è con Alexander che si inizia a vedere un interessamento del disturbo somatoforme come risultante di problemi relazionali. Alexander inizierà ad aprire una nuova via di ricerca nel campo della somatizzazione. Iniziò a ricondurre i problemi nevrotici e le somatizzazioni ai difficili rapporti umani che le persone vivevano. Ritornando alla scoliosi, potremmo definirla come un blocco psichico, anche se ancora non sono state descritte le possibili cause. In questo ambito ci viene in aiuto Reich. Reich condusse diversi esperimenti per sbloccare le tensioni muscolari psicosomatiche, sostenendo che il corpo somatizzava le emozioni in blocchi muscolari. Riteneva che i blocchi psichici potessero essere facilmente rimossi attraverso l’eliminazione dei blocchi fisici, in quanto alla corazza caratteriale sarebbe corrisposta una corazza somatica. Riflettendo sulla parte anatomico-fisiologica, analizzata nella prima parte della presente trattazione, possiamo vedere, come la scoliosi sia caratterizzata da componenti muscolari con una tensione aumentata.
Ma è con Lowen, allievo di Reich, che il cerchio si completa. Lowen affermò che il corpo è fatto di emozioni. Riflettendo su quanto affermato da Lowen, ci accorgiamo di quanto le sue teorie abbiamo un’applicazione pratica facilmente riscontrabile. Tutti noi modifichiamo la nostra postura in base alle emozioni e alle situazioni che viviamo quotidianamente. Potremmo definire il nostro corpo come una sorta di “cartina al tornasole”, dove le emozioni fanno la differenza nella strutturazione della nostra postura nel mondo. Volutamente fino ad ora non è mai stato inserito il termine “postura”, in quanto postura, indica come noi ci poniamo nei confronti di noi stessi e dell’ambiente che ci circonda. La scoliosi non si può definire come una postura non corretta, in quanto è caratterizzata da una deformazione ossea che tende a diventare stabile nel tempo. Ma la domanda che sorge è, come mai la scoliosi prima di una certa età non compare e poi si presenta, spesso con un andamento progressivo di aggravamento? A questa domanda proveremo a rispondere nei capitoli successivi.
Il nostro corpo è formato da un apparato muscolo-scheletrico, da un insieme di tendini, da un sistema cardio-circolatorio, ma anche da emozioni. Dividere il corpo e la mente, in una parte biomeccanica e una parte psicologica vuol dire non considerare l’interazione che avviene nei due sistemi. Sappiamo che la mente può influenzare il corpo ma anche il corpo può influenzare la mente, da ciò si deduce che non ci troviamo di fronte ad un canale unidirezionale, ma ad un continuo scambio di informazioni. Essendo il corpo fatto di “emozioni”, possiamo ipotizzare che i segnali provenienti dall’esterno siano estensibili ad un processo tonico operante nei muscoli. Questo spiegherebbe la costituzione di una immagine corporea, una immagine mentale che ci raffigura internamente. Questa rappresentazione della nostra immagine è operata dal Sistema Nervoso Centrale, le cui aree sono associabili con le “aree di associazione del lobo parietale” del cervello. Questa immagine tende a cambiare e a mutare nelle diverse situazioni/ emozioni che si affrontano quotidianamente.
Nella costruzione di questo schema corporeo potremmo immaginare che si integrino tutte le informazioni somatosensoriali, visive, acustiche, gustative olfattive, viscerali, ecc. Queste informazioni produrrebbero degli schemi che determinerebbero a loro volta dei cambiamenti nella tonicità muscolare. Le informazioni di ritorno andrebbero a modificare ulteriormente lo schema già presente nel nostro Sistema Nervoso e di conseguenza nel cervello. Per fare un esempio immaginiamo che al mattino si abbiano delle esperienze piacevoli, gratificanti, il nostro schema corporeo, o meglio la nostra immagine corporea sarà caratterizzata da un atteggiamento di serenità, di sicurezza e di autostima. La postura indotta dalla tonicità muscolare del momento sarà con le spalle aperte, un portamento dritto e lo sguardo posto in avanti. Poniamo il caso che nel pomeriggio, si abbia un’esperienza del tutto opposta, angosciante e demoralizzante. Ci troveremmo di fronte ad una o più situazioni che potrebbero minare la nostra autostima rendendoci nervosi ed insicuri. L’atteggiamento posturale prenderà una posizione opposta a quella della mattina, perché il nostro schema corporeo si modificherà in un atteggiamento più remissivo, con il capo chino e le spalle chiuse.
Da questo si deduce che l’immagine corporea si modifica in base alle emozioni/situazioni contingenti alle esperienze di vita che si presentano. Questi atteggiamenti corporei non sono del tutto coscienti, sono insiti nella nostra concezione di immagine corporea, immagine costruita con il passare del tempo e con le esperienze. Esperienze che iniziano a formarsi sin da bambini, infatti ogni bambino assume istintivamente una postura a seconda della situazione in cui venga a trovarsi. La postura è una risposta tonica alle emozioni, le stesse, interessando il Sistema Nervoso e di conseguenza il cervello, attuano una modificazione a livello muscolare. Fare una distinzione netta tra emozioni, muscoli e postura non è argomento di facile trattazione, iniziamo con il vedere come le emozioni esercitino il loro potere sul corpo.
Per emozione, la prestigiosa Enciclopedia Treccani ci fornisce questa definizione: “Emozione. Processo interiore suscitato da un evento-stimolo rilevante per gli interessi dell’individuo. La presenza di un’emozione si accompagna a esperienze soggettive (sentimenti), cambiamenti fisiologici (risposte periferiche regolate dal sistema nervoso autonomo, reazioni ormonali ed elettrocorticali), comportamenti ‘espressivi’ (postura e movimenti del corpo, emissioni vocali)”.
Le emozioni hanno un ruolo rilevante nella vita di ogni persona, poiché rappresentano un processo interiore a cui corrispondono modificazioni anche a livello fisiologico, o meglio muscolare. Nell’ambito dei comportamenti emozionali, troviamo il termine affetto. Bowlby definisce l’affetto come: “...una vasta gamma di esperienze vissute: il sentirsi a proprio agio, a disagio, tristi, innamorati”. Il termine “emozione”, come ci suggerisce l’etimologia della parola latina “ex-movere”, indica una componente dinamica, di azione, di interazione tra stimoli esterni e interpretazioni interne con modificazioni fisiologiche. Possiamo quindi dire che, l’emozione produce dei movimenti interni e conseguentemente delle perturbazioni psicofisiche nella persona. Interpretare l’etimologia della parola “ex-movere” come “portar fuori”, sottolinea la componente espressiva del fenomeno, da intendersi come “espressione” del corpo allo stimolo emozionale. Da ciò si deduce quanto siano importanti gli stimoli esterni (input), come modificazione degli atteggiamenti corporei, o meglio fisiologici. Difficile è individuare le modalità di relazione tra gli stimoli, le modificazioni soggettive e le conseguenti modificazioni somatico-comportamentali, in quanto le stesse si presentano in alcuni casi con cambiamenti appena percettibili. Diverso è per gli stimoli più profondi e perduranti nel tempo, come nel caso di emozioni che innescano un profondo e continuativo stato di disagio, la paura, la rabbia o l’angoscia. Pensiamo ad esempio al sentimento di angoscia che alcuni bambini provano quando la madre è costretta a lasciarlo. Le ricerche di Bowlby, sulla relazione madre-bambino, hanno enucleato un complesso comportamentale che è stato chiamato “Stili di attaccamento”.
Definizione che racchiude sia l’aspetto proprio dello stato psicologico del bambino, sia l’aspetto fisiologico ad esso correlato, come nel caso del “bambino evitante” che si ripercuote nella postura. Nel bambino evitante l’aspetto emotivo è preponderante, egli oltre a piangere e a disperarsi, ruota tutto il corpo, instaurando una reazione fisiologica atta a manifestare lo stato in cui si viene a trovare. Queste manifestazioni hanno lo scopo di modificare la relazione dell’individuo con l’ambiente attraverso la manifestazione di sentimenti come la rabbia e l’angoscia, al fine di manipolare il comportamento della madre. Il bambino compie questi atti in maniera del tutto istintuale, come reazione ad uno stato emozionale di disagio. L’aspetto psicofisiologico che desta maggiore interesse, risiede nel momento in cui il bambino, sempre istintivamente, ruota il busto, a voler evitare la madre. Vuole punirla per non aver avuto lo stesso “affetto” che egli sente nei suoi confronti. Il bambino prova delle forti emozioni di rabbia e angoscia nel momento in cui la madre o il caregiver si allontana, rabbia che viene poi convogliata in un atteggiamento di indifferenza al suo ritorno, come una sorta di preparazione per un attacco. Per comprendere meglio questo meccanismo ci viene in aiuto Lorenz. Egli sottolinea che ci sono diversi comportamenti di attacco, tra cui la forma di attacco predatorio, in cui la rabbia sembra essere del tutto assente. Ma d’altro canto ipotizza una situazione inversa in cui le manifestazioni esternamente rilevabili, mimico-espressive, manipolative (pianto), siano ridotte al minimo in attesa che la preda sia di facile cattura. Si potrebbe pensare che il bambino oggetto di uno stato di evitamento, reprimendo la rabbia in modo del tutto istintuale, in attesa che il caregiver ritorni, mentalizzi uno schema motorio di evitamento per dominare la rabbia accumulata.
Poniamo il caso di una madre che è obbligata per motivi di lavoro a dover lasciare il proprio bambino in un asilo. Essa non potrà ritornare a soddisfare i bisogni del bambino se non a fine turno lavorativo, per cui si potrebbe ipotizzare uno stato continuativo di rabbia repressa nell’attesa che il caregiver torni. Stato che il bambino apparentemente potrebbe mimetizzare con il gioco o affidandosi ad una maestra dell’asilo. Questa “rabbia repressa” è facilmente individuabile dal punto di vista fisiologico perché possono manifestarsi reazioni come l’innalzamento della pressione arteriosa e dell’attività cardiaca, del quadro ormonale e modificazioni somatiche. Queste ultime sono legate a variazioni della muscolatura mimica e della muscolatura in generale. Possiamo notare nei bambini lasciati all’asilo alcuni particolari atteggiamenti del volto e/o un innalzamento della tensione muscolare degli arti e del tronco. Ma l’aspetto che più andrebbe valutato, è la rabbia che viene scaricata sui compagni di giochi. Rabbia che potrebbe collegarsi facilmente alla rabbia predatoria che abbiamo precedentemente descritta, come valvola di sfogo per un’attesa troppo lunga. Intervistando i genitori dei ragazzi scoliotici, sono venuto a conoscenza del fatto che questi bambini presentavano tutti gli stessi atteggiamenti, forme di evitamento quando gli stessi tornavano a prenderli e forme di aggressività nei confronti dei compagni di giochi. Forse non è un caso che le patologie scoliotiche siano aumentate negli ultimi decenni, da quando le necessità lavorative delle famiglie obbligano i genitori a lasciare i propri figli dai nonni, nella migliore delle ipotesi, o in asili.
Ogni stimolo viene riconosciuto sia dal Sistema Nervoso che dal cervello. La trasformazione di uno “stimolo” da esterno in una risposta di tipo “interno”, potremmo definirla come “interiorizzazione” del mondo che ci circonda. Ad esempio, uno stimolo di tipo tattile, come potrebbe essere una carezza o un ceffone, deve essere riconosciuto e innanzi tutto riscritto in un codice che lo identifichi per quello che è. Lo stimolo necessariamente deve essere “trasdotto”, operazione che si realizza attraverso i recettori sensoriali, nel caso specifico dai recettori posti nella cute. Questo input proveniente dall’esterno deve essere trasformato in un tipo di energia meccanica ed elettrica attraverso gli organi preposti, per l’appunto i recettori sensoriali. Grazie a loro possiamo rilevare le variazioni dell’ambiente, gli stimoli, trasformandoli in attività bioelettriche, i potenziali d’azione (impulso nervoso), che rappresentano una delle funzioni fondamentali della cellula nervosa. Il potenziale d’azione è un’attività che compare nelle cellule nervose, i neuroni, che quando stimolati innescano una variazione di potenziale elettrico. La cellula nervosa è costituita da un corpo (soma) e da alcuni prolungamenti (assoni e dendriti) ed è separata dall’ambiente esterno da una membrana, il bilayer fosfolipidico e dalla guaina mielinica. In condizioni di riposo ai due lati della membrana, tra l’esterno e l’interno, si stabilisce, per il meccanismo biologico chiamato “pompa sodio-potassio”, una ineguale distribuzione di cariche elettriche, le quali, producendo un differenziale di potenziale elettromagnetico, creano una tensione elettrica. All’interno sono maggiormente presenti ioni proteici a carica negativa, mentre all’esterno si ha una prevalenza di ioni sodio (Na) a carica positiva, stabilendo così un differenziale di potenziale, dentro negativo, fuori positivo. Questa differenza è misurabile a circa -70mVolt, la distribuzione delle cariche negative e positive rende la membrana polarizzata.
Applicando uno stimolo di intensità sufficiente a produrre una risposta, chiamato intensità di soglia, si determina un’inibizione della pompa sodio-potassio, permettendo un massiccio ingresso di ioni di sodio. Capovolgendo la situazione, quindi si avrà la depolarizzazione della membrana, arrivando al valore di circa +40mVolt. A questo livello inizia il processo inverso, ristabilendo le condizioni di prestimolo. Ritornando all’esempio della carezza o del ceffone, avremmo, in entrambi i casi, che la pressione esercitata sulla cute determina, in alcune fibre nervose, un collegamento con il recettore cutaneo e la comparsa di un potenziale d’azione che invia il segnale al Sistema Nervoso e al cervello stimolando le aree del piacere o del dolore. Questa trasmissione tra le cellule avviene attraverso le sinapsi. Esse non sono contigue ma presentano uno spazio chiamato “vallo sinaptico”. In corrispondenza della membrana presinaptica della cellula trasmettitrice di impulsi, sono presenti delle vescicole che contengono delle sostanze chiamate “mediatori chimici”. L’impulso nervoso sviluppato percorre tutta la cellula, dalla membrana del corpo cellulare a quella dei prolungamenti, immettendo in circolo il mediatore chimico che a sua volta lo trasmetterà ad un’altra cellula inviando così il segnale.
Oltre alla via nervosa, sopra descritta, esiste un’altra via di comunicazione, chiamata “via umorale”, rappresentata dalle ghiandole del sistema endocrino, che rilasciano delle sostanze direttamente nel circuito ematico, gli ormoni. Quest’altra via raggiunge gli organi bersaglio in punti molti distanti dall’origine, esercitando un’azione stimolatrice. Un esempio è la secrezione di adrenalina nelle reazioni di attacco e fuga. Il Sistema Nervoso ha la funzione di decodificare gli stimoli ed i messaggi provenienti dall’ambiente e di programmare e di elaborare le risposte. Le risposte si realizzano attraverso la stimolazione della muscolatura liscia, della muscolatura striata e dalle ghiandole endocrine produttrici di ormoni. Muscoli e ghiandole sono un punto focale per comprendere come la somatizzazione passi attraverso queste stimolazioni, creando degli elementi funzionali che combinandosi tra loro tenderanno a formare delle figure comportamentali integrate. Da ciò si deduce che nel Sistema Nervoso Centrale, nello specifico nel tronco encefalico, nel talamo, nell’ipotalamo, ecc., esistono cellule nervose che intervengono specificamente a modulare il livello di eccitazione e di inibizione delle cellule della corteccia cerebrale, preposte all’analisi ed alla sintesi dell’informazione sensoriale.
Lo scambio tra i due sistemi, uno che si riferisce al contenuto dell’informazione sensoriale e l’altro ai livelli di eccitamento, influiscono sulla modulazione della muscolatura, anche a livello localizzato. Conosciamo, grazie alla neurofisiologia, che i centri ipotalamici possano essere considerati delle aree generatrici di diversi comportamenti istintivi. Ad esempio, l’attività delle cellule di alcune aree della corteccia cerebrale, come quella della circonvoluzione frontale ascendente, producono delle contrazioni muscolari dei muscoli corrispondenti, ci sono riscontri di paralisi che compaiono a seguito di lesioni di dette aree. La risposta genera un “riflesso”, elemento base dell’attività del Sistema Nervoso Centrale. Il riflesso si può definire come un’unità funzionale del Sistema Nervoso Centrale che mette in connessione l’attività dei recettori, che raccolgono e trasducono gli stimoli dell’ambiente esterno (input), con l’attività degli effettori che costituiscono la base anatomica per la produzione della risposta (output) agli stimoli stessi. Gli input esterni, attraverso una serie trasduzione di segnali, modificano le tensioni muscolari e di conseguenza la postura.
L’interazione di questi meccanismi, insieme ad altri fattori rilevanti insiti nel comportamento individuale, come ad esempio la storia individuale, la personalità e la cultura nel senso più ampio del termine, possono essere fonte di somatizzazioni a livello della muscolatura, modificando la postura. Modificazioni che si concretizzano in due tipi di comportamento adattativo, nello specifico, nei riflessi dell’attività vegetativa e nei riflessi indispensabili per il mantenimento del tono muscolare e della postura. Tra i riflessi dell’attività vegetativa possiamo annoverare quelli che hanno a che vedere con l’autoconservazione e la conservazione della specie, come l’assunzione di cibo, la respirazione, l’eliminazione di metaboliti, mentre per quelli muscolari e posturali, i somatici e i viscerali. La fisiologia tradizionale rimarcava la distinzione tra vita vegetativa e vita di relazione, la prima si riferiva all’attività dei visceri, al mondo interno dell’organismo, (processi alimentari-digestivi, cardiocircolatori), sottolineando la regolazione involontaria e automatica, senza l’interessamento della corteccia cerebrale. La vita relazionale è invece quella che mette in relazione l’organismo con l’ambiente esterno. Strutture portanti di questo sistema sono i telerecettori: vista, udito, cute e il sistema muscolare striato. Abbiamo visto come gli input esterni vadano a stimolare il Sistema Nervoso Centrale; la vita relazionale è di fondamentale importanza in questo contesto perché situazioni di ansia, di paura, di angoscia, preparano il terreno all’insorgenza dello stato di stress e le conseguenti tensioni muscolari. La condizione di stress è considerata una risposta dell’organismo a particolari stimoli, condizione favorente l’insorgere di patologie psicosomatiche. È proprio lo stress la condizione principe che induce a modificazioni di tipo somatico, se poi questo stato si mantiene per un periodo prolungato, esse tenderanno a cronicizzarsi, divenendo condizioni stabili. Ecco perché appare plausibile che la scoliosi possa derivare da uno stress da evitamento protratto nel tempo, ed essere causa di una modificazione a livello della muscolatura striata, simile ad una sorta di torsione del rachide che rimarrebbe impressa nella muscolatura.
Qui ci viene in aiuto la psicologia clinica, in special modo le teorie reichiane sull’insorgenza di meccanismi fisiologici di tipo inibitorio. Il riferimento è alla “contrattura muscolare” come risposta riequilibrante, che abbasserebbe i livelli di stress provocando un’inibizione della programmazione centrale, riferita ai muscoli interessati, da intendersi come segnale di stop ad ulteriori stati di ansia. Bloccando il muscolo o i muscoli in una determinata posizione, si avrebbe un segnale di ritorno che placherebbe le ansie generate in precedenza. Fu proprio Reich, primo fra tutti, a rilevare in numerosi soggetti che si sottoponevano a trattamenti psicoanalitici, vere e proprie contratture muscolari croniche che interessavano diversi distretti corporei. Di tali contratture croniche i pazienti di Reich non erano consapevoli. I ragazzi scoliotici presentano delle notevoli analogie con i pazienti di Reich in quanto:
A riprova di ciò, intervistando i ragazzi, nessuno di loro provava la benché minima percezione che qualcosa stesse modificandosi nella loro schiena, infatti la patologia scoliotica viene scoperta dai genitori e/o dagli insegnati, solo perché viene notato uno strano rigonfiamento nelle regioni toraciche e/o lombari, ossia il gibbo. Reich osservò che tali tensioni muscolari potevano costituire una sorta di rigida “corazza”, un meccanismo di difesa messo in atto dai soggetti stessi. Come precedentemente rilevato, per rimarcare l’importanza di tali osservazioni, i ragazzi scoliotici, da me osservati, lamentano tutti di essere stati in qualche modo “abbandonati” dai genitori. La letteratura psicoanalitica reichiana ci racconta anche cosa accadeva quando i terapeuti cercavano di sciogliere le contratture. Spesso i pazienti avevano attacchi d’ira o reazioni d’angoscia; questo portò a pensare che le contratture croniche avessero il compito di impedire la comparsa di tali manifestazioni. Una certa analogia può essere rilevata nel trattamento dei ragazzi scoliotici. Seguendo le linee canoniche protocollari per la riduzione e il contenimento del gibbo scoliotico, i ragazzi mostravano stati sempre più marcati di angoscia e di ira. Si presentavano alle lezioni sempre più svogliati e sempre più nervosi sia nei confronti dei genitori che degli insegnanti e dei compagni di scuola. A tal proposito cito un colloquio avuto con uno dei genitori:
“Un pomeriggio la madre di una ragazza di 13 anni, che chiameremo Beatrice, si presentò in studio lamentando che la ragazza fosse insofferente, irosa e poco attenta alle lezioni. Iniziai ad osservarla più attentamente durante le lezioni e notai la sua insofferenza, il suo continuo lamentarsi di presunti dolori alla schiena e le sue risposte un poco sgarbate ai miei richiami. Quando decisi di cambiare il protocollo della lezione, lasciando più spazio alle emozioni dei ragazzi, il comportamento di Beatrice iniziò a cambiare. L’ira mascherata sotto forma di dolori e l’angoscia che manifestava durante gli esercizi, pian piano iniziò a lasciar posto ad una partecipazione più attiva. Arrivava persino in anticipo alla lezione solo per parlare con gli altri ragazzi, come confessò lei stessa. La curva scoliotica iniziò a migliorare, al punto tale che gli ortopedici della struttura nella quale era in cura, comunicarono alla madre che non era più necessario che la ragazza indossasse il busto”.
Quindi la contrattura muscolare o meglio il gibbo scoliotico, rappresenterebbe un meccanismo che interrompe con un feed-back lo sviluppo spazio- temporale della fenomenologia di un comportamento programmato, rappresentante una condizione di disagio. Il gibbo scoliotico eserciterebbe una inibizione retroattiva di sentimenti vissuti negativamente. Quindi le sensazioni e le emozioni negative che compaiono in una reazione psicofisiologica, possono essere inibite dalle contratture muscolari che costituiscono un segnale artificiale di stop, con l’effetto di bloccare, agendo sui centri encefalici, livelli troppo alti di stress. Ecco perché il tentativo di rimozione/riduzione delle contratture (gibbo), provocherebbero la ricomparsa del materiale emozionale inibito, in altri termini degli stati di angoscia e ira. Si potrebbe azzardare affermando che non siano eventi psichici a diventare somatici ma eventi somatici ad inibire il manifestarsi di processi psichici. Questo potrebbe essere in parte spiegato dalle osservazioni di Piaget, quando descrive una fase maturativa nota come senso motoria. Questa fase copre circa i primi 2 anni di vita del bambino, durante i quali egli, attraverso il movimento e toccando gli oggetti, sperimenta direttamente il proprio corpo e costruisce alcune interazioni con l’ambiente. Il corpo trasmette ai bambini informazioni sia di tipo propriocettivo, muscolare, che provengono dalla manipolazione dell’ambiente, sia esterocettive provenienti dalle reazioni cutanee, visive e uditive.
Come visto in precedenza, il bambino che attua un comportamento di tipo evitante, mette in atto tutte le esperienze accumulate in questa fase, come ad esempio voltare le spalle all’oggetto che gli ha provocato dolore fisico. Non è raro osservare bambini che accidentalmente, mentre esplorano l’ambiente circostante, si facciano male con un oggetto, ad esempio una sedia e che allo stesso oggetto diano le spalle, come ad evitare la vista di ciò che gli ha procurato dolore. SSe un atteggiamento evitante si attua anche nei confronti di un banale oggetto che non è fonte di attaccamento, immaginiamo l’ansia e la rabbia che potrebbe provocare il distacco da un oggetto fonte di attaccamento come la madre. Essendo un evento di gran lunga più traumatico, potrebbe comportare una sorta di cronicizzazione delle emozioni. L’ansia e l’angoscia sarebbero così forti da agire continuamente, evocando dei feed-back che produrrebbero delle modificazioni a livello strutturale della muscolatura coinvolta. L’interesse da parte della clinica deve rivolgersi alle modificazioni somatiche che avvengono in tale contesto. Ruggeri in “Mente, corpo, malattia”, definisce l’emozione cronica come: “...un’emozione cronica fissata crea interferenze nella statica e nell’organizzazione dell’equilibrio producendo caratteristiche deviazioni negli atteggiamenti posturali del corpo (sia nel corpo nel suo insieme che nei singoli distretti) modificando per esempio i rapporti reciproci testa-collo, collo-tronco, tronco-arti, etc.”. Diventa dunque plausibile ritenere che la cronicizzazione di una o più emozioni possa riflettersi sulla muscolatura in una forma stabile, come la scoliosi.
Per postura si intende l’atteggiamento abituale di una persona, determinato dalla contrazione dei gruppi muscolari scheletrici che si oppongono alla forza di gravità. La postura è anche il modo in cui un individuo comunica con l’ambiente esterno attraverso il corpo. In senso più ampio può essere definita come l’adattamento personalizzato di ogni individuo all’ambiente fisico, psichico ed emozionale. Tutte le posture sono differenti perché sono l’intreccio tra la storia dell’individuo e le sue componenti genetiche. La storia dell’individuo è la storia delle esperienze concrete di vita che interessano la dimensione cognitiva, emozionale e corporeo-emozionale. La postura è una interazione continua tra stimoli esterni ed elaborazioni interne, che costituiscono il nostro biglietto da visita nella società. Il nostro corpo è fatto di emozioni. Il corpo attraverso la postura diviene lo specchio delle nostre emozioni, le conserva ma al tempo stesso le esterna, rendendole partecipi a pieno titolo della nostra vita. È il mezzo con cui scolpiamo la nostra storia, come uno scultore che plasma il marmo per raccontare un momento, un evento, noi attraverso il corpo scriviamo e scolpiamo il nostro romanzo, la nostra storia. In questo modo la postura diviene un diario, dove annotiamo ogni giorno le nostre esperienze, ma è un racconto strettamente personale, talmente privato che è difficile da leggere sia per la persona che lo scrive sia per chi deve interpretarlo. Basti pensare a re Riccardo III, morto quasi 600 anni fa, eppure eccolo lì, con il suo scheletro che ci parla della sua vita, della sua morte e perché no, delle sue angosce e disperazioni. In quello scheletro, abbandonato in una misera fossa senza nome, è rimasta scritta la sua storia, il romanzo di una persona lacerata da forti contrasti interni, destinata a dover, suo malgrado, dare un’immagine diversa da ciò che, forse, era realmente. Proviamo a lavorare di fantasia immaginando un uomo che non volesse ricoprire il ruolo di sovrano, la sua postura potrebbe indicarci il rifiuto di quel fardello.
Una torsione della colonna che lo avrebbe costretto a vedere il mondo che lo circondava in modo sfuggente, ma che la realtà del suo ruolo gli imponeva di affrontare a viso aperto. Non sapremo mai purtroppo se queste fantasie abbiano un fondamento di verità, non ci sono documenti che parlino dei suoi stati d’animo né uno psicoanalista dell’epoca che ne abbia raccontato la sua storia. La postura si genera conseguentemente alle esperienze, alle emozioni e alle stimolazioni che intervengono dall’ambiente esterno, andando a costituire la formazione dell’Io. La strutturazione della postura e la formazione dell’Io sono strettamente collegati, formano un tutt’uno, dove le informazioni esterocettive, propriocettive (provenienti dai muscoli) ed enterocettive (provenienti dai visceri) vengono coordinate dall’Io per la strutturazione del corpo. Il corpo diviene così la rappresentazione dell’Io, espressione dell’Io nello spazio, immagine corporea del vissuto. L’Io del bambino si struttura sin dal primo contatto con la mamma, attraverso l’esperienza basilare di contatto e relazione, dando luogo alla formazione degli schemi motori. Il contatto con la mamma o con il caregiver è di fondamentale importanza, il neonato sin da subito percepisce il modo in cui viene tenuto in braccio. Sarà sereno se la presa risulterà sicura si muoverà e opporrà resistenza se cercheremo di sollevarlo con un atteggiamento insicuro, passando dal rilassamento alla tensione corporea.
La relazione madre-bambino può generare nel neonato vissuti di stabilità o di instabilità che a sua volta potrebbero assumere i caratteri di sicurezza o di insicurezza psicologica. La prima educazione all’organizzazione della postura avviene tra le braccia della madre, attraverso l’acquisizione di un numero più o meno elevato di schemi motori. La presenza della madre “sufficientemente buona”, usando la definizione di Winnicott, che sa quando dare le opportune cure, inizia a organizzare gli schemi motori che saranno poi utilizzati in tutta la vita della persona. Un caregiver sicuro trasmetterà nel neonato tranquillità, la muscolatura avrà un tono regolare, si lascerà andare in piena sicurezza. Nel caso di un caregiver insicuro, il neonato mostrerà un irrigidimento muscolare dovuto alla diffidenza nei confronti della figura di accudimento. Possiamo sperimentare in qualsiasi momento, la percezione alla diffidenza con un semplice esercizio. Trovandoci in una piscina, possiamo vedere come i principianti che sono in procinto di imparare a nuotare abbiano difficoltà a “lasciarsi andare”. L’irrigidimento della muscolatura provocherà un arretramento del baricentro e una inclinazione maggiore del corpo, rispetto alla linea di galleggiamento così da far venire meno la “Spinta di Archimede”, provocando l’affondamento. Il discorso cambia totalmente per la persona che non prova diffidenza per l’acqua, starà tranquillamente distesa sulla superficie, beneficiando della spinta risultante dalla superficie più ampia occupata. La ricerca della sicurezza nel caregiver è fondamentale, così come la fiducia nelle figure parentali prossime. La fiducia nelle figure di accudimento andrà formandosi con il tempo e sarà di fondamentale importanza per lo sviluppo maturativo dell’individuo. La fiducia, prima nel caregiver e successivamente nelle altre figure parentali, costituisce il nucleo fondamentale su cui si costruisce la fiducia in se stessi. La mancanza di fiducia in se stessi deriva da un io fragile, le tensioni muscolari diventano delle difese, la famosa “corazza” teorizzata da Reich. Le tensioni muscolari sono la storia delle emozioni che hanno lasciato un segno nella vita della persona, assolutamente individuale e irrepetibile. La cronicizzazione della tensione/contrazione muscolare, mantenendosi nel tempo, impedirebbe lo sviluppo spazio-temporale dei pattern emozionali. L’emozione verrebbe come congelata, lasciata a guardia di possibili eventi futuri, formando una difesa contro il ripresentarsi di tali eventi stressogeni. La torsione della colonna vertebrale, riscontrabile nelle scoliosi idiopatiche, potrebbe essere analizzata dal modo in cui il soggetto percepisci la fase di evitamento, sia dal punto di vista emotivo che dal campo visivo che volutamente riduce.
Si può ipotizzare che il bambino quando si trova a voler evitare lo sguardo del caregiver che lo ha ferito, modifichi anche cognitivamente la posizione nello spazio a livello mentale. Il mantenimento a livello cognitivo del processo di evitamento porterebbe ad una modifica dell’immagine corporea e del conseguente schema corporeo. Per comprendere meglio questo meccanismo si può prendere ad esempio gli studi eseguiti dalla scuola di Lurija che ha messo in evidenza che anche il solo pensare una parola, mette in moto la lingua, come se il soggetto, anche se solo in modo appena accennato, tendesse a pronunciarla. Ipotizziamo che lo stesso meccanismo si instauri nel momento in cui il bambino rimane da “solo” all’asilo. Fisicamente potrebbe partecipare alle attività ludiche proposte dalle insegnanti, ma in un contesto “meta” potrebbe mantenere la postura a livello immaginativo, modificando lo schema corporeo e di conseguenza la postura. L’Io si identificherebbe completamente con il corpo nella posizione di “evitare” la figura di accudimento, formando delle tensioni muscolari che innescherebbero la comparsa della scoliosi, che potrebbe essere interpretata come diretta espressione dell’Io. L’atteggiamento posturale di evitamento non viene notato, in quanto farebbe parte di un meccanismo molto più ampio. Gli studi eseguiti da Ruggeri, dimostrano spesso una “…non corrispondenza tra direzione dello sguardo e atteggiamento del corpo”. 225 Questa postura viene spesso riscontrata nei bambini che vivono in maniera angosciosa la fase del distacco, rivolgendo lo sguardo diritto innanzi a loro, mentre il tronco mostra una lieve torsione, torsione che ha delle analogie importanti con la scoliosi idiopatica. Sempre Ruggeri sostiene che le differenze nella direzione spaziale posturale dei vari distretti corporei hanno un profondo significato psicofisiologico. Spesso nascono da un conflitto; il soggetto cerca di mantenere diritto il proprio sguardo, per un contatto diretto con ciò che gli sta di fronte, mentre con il resto del corpo inizia un movimento, peraltro appena accennato e non sviluppato, di evitamento-torsione. Sviluppando idealmente questa osservazione, ci si rende conto che il soggetto ha dato inizio a un movimento di torsione del corpo che, se fosse completato, lo porterebbe a dare le spalle alla realtà che gli sta di fronte, o a sfuggire lateralmente verso destra o verso sinistra.
Il soggetto crea così, con una parte del corpo, un atteggiamento elusivo di torsione-evitamento per quanto riguarda il tronco, ma di contatto diretto con ciò che gli sta di fronte per quanto riguarda lo sguardo. La postura si organizza in tal modo su due piani, uno frontale per quanto riguarda lo sguardo e uno obliquo per quanto riguarda il tronco. Ecco un conflitto che non è di natura semplicemente meccanico-posturale, ma profondamente psicologico. La cristallizzazione nell’atteggiamento di torsione rispetto al piano frontale, è dovuto alla messa in atto della parte iniziale non sviluppata di un gesto aggressivo. Sempre Ruggeri dice che la cristallizzazione determina la presenza stabile di un certo livello di tensione, presente per lo più nella forma della contrattura. Tale cristallizzazione, in una fase di sequenza motoria, costituisce un gesto programmato che entra a far parte della postura abituale. Il soggetto intreccerà l’organizzazione statico-meccanica della postura con tale tensione cristallizzata. Appare evidente come una esperienza prolungata di angoscia, possa tradursi in un atteggiamento psicologico, come quello di un bambino lasciato all’asilo per un anno, per poi tramutarsi in un concreto atteggiamento posturale cronico.
Questo articolo è tratto dal libro A scuola di Posturale, pratico manuale di oltre 500 pagine interamente dedicato alla Ginnastica Posturale.
Donald Winnicott è stato un pediatra e psicoanalista inglese nato nel 1896 e morto nel 1971. Ha studiato medicina a Cambridge e si è formato in psicoanalisi con James Strachey e Joan Rivière. Ha lavorato per quarant'anni come pediatra, sviluppando teorie originali sullo sviluppo psicologico ed emotivo del bambino, diventando uno dei pionieri della scuola delle relazioni oggettuali.
L'Holding è la capacità della madre di contenere le angosce del bambino, sapendo istintivamente quando intervenire con amore e quando mettersi da parte. In questo spazio, il bambino sperimenta l'onnipotenza soggettiva, una fase cruciale per il suo sviluppo, in cui sente di creare ogni cosa con i suoi desideri.
Lo spazio transizionale è una realtà intermedia tra quella soggettiva, dove il bambino ha il controllo onnipotente, e quella oggettiva, dove la madre esiste indipendentemente. Questo spazio, percepito sia soggettivamente che oggettivamente, permette al bambino di passare gradualmente alla realtà condivisa senza traumi, giocando creativamente e sviluppando autonomia.
La madre sufficientemente buona è colei che istintivamente sa accudire il bambino, dosando frustrazioni e cure, e possiede una preoccupazione materna primaria che le permette di presentare il mondo al bambino in modo adeguato, facendogli sperimentare l'onnipotenza soggettiva e favorendo uno sviluppo sano.
L'articolo afferma che il corpo è fatto di emozioni e che la postura è una loro diretta manifestazione, nonché un'interazione continua tra stimoli esterni ed elaborazioni interne. La postura riflette la storia emotiva e le esperienze di un individuo, agendo come uno specchio del suo stato interiore e come mezzo di comunicazione con l'ambiente.