La scatola cranica è costituita in gran parte da ossa piatte che delimitano una cavità cranica in cui è avvolto l’encefalo. Anche le ossa del massiccio facciale delimitano diverse cavità (orale, orbitarie, nasali). Le articolazioni del cranio sono in prevalenza sinartrosi in quanto si stabiliscono fra ossa che hanno principalmente funzioni di contenimento e di protezione. Un’articolazione mobile, invece, è presente dove il cranio si congiunge con lo scheletro del tronco, la colonna vertebrale (articolazione atlo-occipitale). Una seconda diartrosi si effettua tra la mandibola e l’osso temporale (articolazione temporo-mandibolare).
Queste articolazioni non rivestono importanza minore all’interno del Sistema Tonico Posturale anzi, costituiscono un complesso e importante apparato, insieme alla bocca, alla lingua e ai denti, noto come stomatognatico.
I muscoli del cranio possono essere divisi in estrinseci e intrinseci. Gli estrinseci si inseriscono su ossa del cranio prendendo origine da punti diversi dello scheletro assiale e principalmente dalla colonna vertebrale. Questi muscoli determinano la mobilità della testa sul tronco. Gli intrinseci hanno origine e inserzione sulle stesse ossa del cranio. Questi muscoli intervengono nella masticazione, nei movimenti oculari, e nelle espressioni del volto.
Il rachide, o colonna vertebrale, è un complesso osteo-artro-muscolare che si trova dorsalmente nel tronco. Costituisce un supporto per la testa e per le varie parti del tronco stesso e dà attacco agli arti superiori e inferiori. Ha anche funzioni di contenimento in quanto accoglie nel proprio interno il midollo spinale che lo percorre assialmente per parte della sua lunghezza (in buona parte dei casi l'apice inferiore è posto nel disco intervertebrale tra L1 e L2). Lo scheletro del rachide è dato dalla colonna vertebrale, costituita dalla successione di 33-34 vertebre, separate tra loro da un disco intervertebrale, che nel suo complesso va a costituire 4 curve. Il tratto cervicale è formato da 7 vertebre: la prima di esse si articola con l’osso occipitale del cranio, l’ultima con la prima delle vertebre toraciche. Nel complesso il tratto cervicale va a costituire una curva a convessità anteriore nota come lordosi cervicale. Il tratto toracico o dorsale è costituito da 12 vertebre toraciche con le quali si articolano le coste. Nel suo complesso forma una curva a convessità posteriore nota come cifosi dorsale o toracica.
Il tratto lombare consta di 5 vertebre lombari, l’ultima delle quali si mette in giunzione con l’osso sacro. Nel suo complesso forma una curva a convessità anteriore nota come lordosi lombare. Il tratto pelvico presenta una costituzione differente rispetto agli altri tratti in quanto è formato da due ossa, sacro e coccige, che si articolano tra loro. L’osso sacro, inoltre, si articola con le due ossa dell’anca. Si possono individuare 5 segmenti costitutivi nel sacro e 4 o 5 nel coccige, che possono essere più o meno fusi tra loro. Nel complesso questo tratto forma una curva a convessità posteriore nota come cifosi sacro-coccigea.
“La formazione delle curve non è un capriccio della natura ma un abile sistema per la ripartizione più equilibrata dello scarico delle forze e una maggiore possibilità di movimento del rachide”.
Le curve assolvono la funzione di aumentare la resistenza della colonna. Come afferma Kapandji, che da un punto di vista funzionale considera 3 curve, la resistenza di una colonna è direttamente proporzionale al quadrato del numero delle curve più uno, cioè un valore dieci volte superiore rispetto ad un rachide rettilineo; inoltre favoriscono la statica del corpo permettendo alla linea di gravità di cadere nel poligono di appoggio scomponendo l’azione delle forze che agiscono sulla colonna. Le vertebre sono ossa brevi formate da un corpo e da un arco che, insieme, delimitano un foro vertebrale. La successione dei fori vertebrali offre lo spazio per il passaggio del midollo spinale. Il corpo è la parte della vertebra più voluminosa e resistente. Ha forma quasi cilindrica e presenta una faccia superiore, una faccia inferiore ed una faccia di contorno denominata anche circonferenza. Le due facce superiore e inferiore sono leggermente concave al centro mentre più sollevate perifericamente. I corpi delle vertebre contigue si articolano tra loro tramite le facce superiore ed inferiore; tra queste si pongono i dischi intervertebrali. L’arco è la parte posteriore della vertebra. Vi si distinguono, dall’avanti in dietro, due peduncoli, due masse apofisarie, due lamine e un processo spinoso, palpabile posteriormente. I margini dei peduncoli di due vertebre contigue delimitano, sovrapponendosi, un foro intervertebrale che dà passaggio al nervo spinale.
Facendo eccezione per il sacro e per il coccige, i cui segmenti vertebrali sono fusi tra loro e fortemente modificati, nelle vertebre si possono riconoscere caratteristiche generali di costituzione e particolarità di conformazione che consentono di assegnarle a un determinato tratto della colonna vertebrale o, addirittura, di riconoscerle individualmente. Le vertebre cervicali sono di dimensione più piccola rispetto alle altre vertebre della colonna vertebrale. In generale, le 7 vertebre cervicali aumentano gradualmente di volume in direzione cranio-caudale. Presentano un corpo grossomodo di forma quadrangolare ed un foro vertebrale di forma triangolare. Differiscono la prima, la seconda e la settima vertebra cervicale. La prima vertebra cervicale è chiamata atlante, presenta una configurazione profondamente modificata rispetto a quella generale delle vertebre cervicali. Si articola in alto con l’osso occipitale. Manca del corpo che, durante lo sviluppo, si fonde con quello dell’epistrofeo. Risulta perciò formata da un arco anteriore e da un arco posteriore che riuniscono due voluminose masse laterali. La seconda vertebra cervicale è chiamata epistrofeo, ha caratteri generali delle vertebre cervicali ma si presenta modificata, soprattutto nella faccia superiore del corpo in cui si osserva il processo odontoideo (o dente) che si connette al corpo vertebrale con una larga base cui segue un collo ristretto e quindi un corpo voluminoso che termina con un apice che si inserisce sull’atlante.
La settima vertebra cervicale è chiamata prominente, per la particolarità del suo processo spinoso particolarmente sporgente e palpabile alla base del collo. Le vertebre dorsali hanno un corpo molto largo e spesso di forma cilindrica. Aumentano di dimensione dall’alto verso il basso. I processi spinosi sono lunghi e rivolti verso il basso. Sono palpabili sulla parte medio-alta del dorso. Si articolano con le coste, il che permette facilmente di riconoscerle. Le vertebre lombari sono le più voluminose, essendo qui il carico sulla colonna più gravoso. I processi spinosi, anch’essi molto robusti, hanno forma di lamine quadrilatere dirette orizzontalmente indietro. I dischi intervertebrali, la cui dimensione è massima a livello lombare, hanno la forma di lente biconcava; è possibile distinguere una faccia superiore, una faccia inferiore ed una circonferenza. Sono costituiti da una parte periferica, l’anello fibroso, e da una parte centrale, il nucleo polposo. L’anello fibroso è formato da fibrocartilagine assai ricca di fasci collagene che descrivono anse con la convessità esterna e la concavità rivolta verso il nucleo polposo. Ha lo scopo di contenere e proteggere il nucleo centrale e conferisce al disco grande resistenza alla compressione. Il nucleo polposo è costituito da fibrocartilagine ricca di gruppi isogeni e di sostanza fondamentale; le fibre collagene non si organizzano in fasci compatti come nell’anello fibroso ma si intrecciano irregolarmente delimitando spazi occupati da gruppi di cellule cartilaginee e da sostanza fondamentale. Il nucleo polposo non si trova esattamente al centro del disco; è dislocato in avanti nel segmento cervicale, indietro nei segmenti toracico inferiore e lombare. Il nucleo polposo si sposta durante i movimenti della colonna vertebrale e in tal modo rende possibile una certa inclinazione dei piani vertebrali che vengono tra loro a contatto.
Il disco intervertebrale funge da cuscinetto capace di sopportare gli sforzi di compressione a cui è costantemente soggetta la colonna vertebrale, grazie alla pressione idrostatica che si produce al suo interno. I dischi sono collegati, anteriormente e posteriormente lungo l'intera colonna, da legamenti fibrosi che ne costituiscono una potente struttura di rinforzo. I dischi intervertebrali adulti non possiedono un'irrorazione ematica; sottili vasi sanguigni entrano ed escono dal disco nei primi anni di vita, ma tendono poi a scomparire verso i 20-30 anni. Di conseguenza, il disco intervertebrale trae il proprio nutrimento essenzialmente per osmosi dai letti capillari che lo circondano; allo stesso modo elimina le sostanze di rifiuto. Questo meccanismo viene attivato dai cambi di pressione all'interno del disco, generatisi durante i movimenti della colonna. I dischi assumono sostanze nutritizie quando alternano periodi di scarico ad altri di carico. Quando si assumono per molto tempo posture fisse e immobili, come nei soggetti particolarmente sedentari, tale meccanismo viene alterato. La funzione ammortizzatrice del disco viene progressivamente meno, con l’instaurarsi di processi degenerativi che dapprima interessano la cartilagine della singola articolazione ma che successivamente potranno estendersi ad altre strutture, muscoli e articolazioni, determinando rigidità e dolore. Bisogna ricordare che la perdita funzionale di una struttura del nostro corpo, oppure un suo non corretto funzionamento, determina inevitabilmente dei sovraccarichi in altre strutture. Il risultato sarà che anche queste strutture col tempo funzioneranno meno e male.
A livello cervicale l’altezza dei dischi è di 5–6 mm, più alto anteriormente, per formare la fisiologica curva cervicale in lordosi. A livello dorsale l’altezza dei dischi è di 3–6 mm, con spessore identico davanti e dietro. A livello lombare l’altezza dei dischi cresce, dall’alto verso il basso, da 10 mm a 15 mm e sono più alti nella parte anteriore per formare la lordosi lombare. I dischi lombari sono quelli più sollecitati, a causa del maggior peso sopportato, e dunque soffrono maggiormente di fenomeni di degenerazione, con perdita di acqua nel nucleo e conseguente riduzione della capacità portante del disco. La causa primaria dei dolori di origine discale è infatti legata essenzialmente ai microtraumi ed ai fenomeni degenerativi che avvengono nei dischi intervertebrali per usura e invecchiamento. In persone giovani, i vari dischi costituiscono il 25% dell'altezza del rachide, ma questa percentuale è destinata a scendere con l'invecchiamento. L'avanzare dell'età, infatti, porta con sé una progressiva ed irreversibile perdita di acqua e funzionalità del disco intervertebrale, che si trasforma in un "ammortizzatore scarico”.
Mentre il contenuto idrico nei dischi delle persone giovani si attesta intorno all'80-85%, nei soggetti anziani tale percentuale scende al di sotto del 70%. Quando si applica una pressione sul disco intervertebrale si ottiene una fuoriuscita dei liquidi di nutrimento ed una riduzione del suo spessore. Viceversa, quando si toglie pressione (ad esempio durante il sonno) avviene un richiamo di liquidi verso l'interno ed un ripristino della sua struttura. È noto, infatti, che la statura al risveglio è circa due centimetri superiore rispetto a quella misurata al termine di una giornata lavorativa, dal momento che ogni disco intervertebrale subisce variazioni quotidiane pari al 10% del suo spessore. Le vertebre si pongono ulteriormente in rapporto articolare tra loro oltre che con i dischi intervertebrali, tramite i corpi, anche fra i processi articolari con diartrosi del tipo delle artrodie in quanto si effettuano tra faccette articolari piane. I movimenti a livello dei processi articolari sono perciò sempre di scorrimento tra le superfici contigue; inoltre, sono riunite per mezzo di legamenti a distanza che connettono le lamine, i processi trasversi e i processi spinosi.
I dispositivi osteoarticolari della colonna vertebrale sono provvisti di una ricca muscolatura intrinseca che si estende dalla base cranica sino al coccige. Questa muscolatura, che prende attacco su metameri contigui o su punti ossei più o meno distanti della colonna vertebrale, conferisce stabilità e mobilità al rachide. Ai muscoli intrinseci si aggiungono muscoli estrinseci che, prendendo attacco sulla colonna, se ne allontanano per inserirsi sul tronco e sugli arti. I muscoli intrinseci del rachide, cioè che hanno origine e terminazione sulla colonna vertebrale, sono considerati muscoli propri del rachide. Per la maggior parte, questi muscoli sono situati dorsalmente alla colonna, immediatamente a ridosso dello scheletro e vengono denominati muscoli delle docce vertebrali (o muscoli spinodorsali o muscoli erettori della colonna vertebrale). Essi costituiscono lo strato profondo dei muscoli del dorso e sono ricoperti, dalla profondità verso la superficie, da due altri strati muscolari, i muscoli spinocostali e i muscoli spinoappendicolari.
I muscoli delle docce vertebrali sono in grande prevalenza formati da fascetti che decorrono parallelamente o con leggera obliquità rispetto alla colonna vertebrale. I fasci più superficiali hanno lunghezza maggiore in quanto originano e terminano su metameri fra loro assai distanti; i fasci intermedi sono meno estesi e la loro origine e terminazione si trovano alla distanza di due o tre metameri ossei; infine, i fasci profondi riuniscono segmenti ossei contigui. In realtà questi muscoli si organizzano per essere un'unica struttura portante utile a far sì che le vertebre possano scaricare il carico dei vari distretti corporei senza gravare sulle articolazioni intervertebrali. La loro azione ha grande importanza nel mantenimento della stazione eretta, opponendosi alla trazione in avanti della muscolatura dell'addome estendendo così la colonna vertebrale. Possiamo distinguere tra essi:
L’arto superiore è composto dalle ossa della scapola, della clavicola, dell’omero, del radio, dell’ulna e dalle numerose ossa della mano. La scapola è un osso piatto, pari e simmetrico che si trova sulla superficie dorsale del torace e si estende dalla seconda alla settima costa. Ha forma triangolare, con l’apice rivolto verso il basso. Presenta una faccia anteriore concava, una posteriore convessa e tre margini, superiore, mediale e laterale. La faccia posteriore presenta nel suo quarto superiore una grossa sporgenza chiamata spina della scapola. Essa sporge lateralmente e distalmente a formare l'acromion che presenta la faccia articolare deputata all'articolazione con la clavicola in una artrodia (articolazione acromioclavicolare). La spina della scapola divide la faccia posteriore in due fosse: la sovraspinata (o sovraspinosa), che occupa il terzo superiore, e la sottospinata o infraspinata (o infraspinosa), che occupa i 2/3 inferiori. Queste 2 fosse danno origine agli omonimi muscoli. Il margine mediale della scapola è verticale e parallelo alla colonna vertebrale, il margine laterale presenta, nell’angolo in alto a sinistra, la cavità glenoidea, sede dell’articolazione con la testa dell’omero (enartrosi scapolo-omerale).
La clavicola è un osso sottile e lungo che collega lo sterno con la scapola. La sua forma ricorda la lettera S. La clavicola è costituita da un corpo centrale e da due estremità; l’estremità mediale (anche sternale) è più vicina allo sterno, quella laterale (anche acromiale) si articola con l’acromion ed è più vicina alla scapola.
L’omero è un osso lungo che presenta una diafisi e due epifisi (prossimale e distale). Ha forma cilindrica in alto e prismatica triangolare in basso, presenta nel complesso tre facce (antero-mediale, antero-laterale e posteriore) divise da tre margini: anteriore, mediale e laterale. La faccia antero- mediale presenta longitudinalmente il solco bicipitale, dove scorre il tendine del muscolo bicipite brachiale. La faccia antero-laterale mostra una rugosità a forma di V per l'inserzione del muscolo deltoide, detta impronta deltoidea. L’estremità prossimale si articola con la fossa glenoidea scapolare costituendo l’articolazione scapolo-omerale. È la sede della testa dell’omero il cui contorno è delimitato da un restringimento detto collo anatomico nei pressi del quale sono visibili due rilievi, la piccola e la grande tuberosità. Inferiormente, rispetto al collo anatomico, troviamo il cosiddetto collo chirurgico, una zona spesso esposta a traumi, in particolar modo nei soggetti anziani.
L'estremità inferiore è appiattita con un'ampia superficie articolare divisa in due parti, mediale e laterale. La faccetta mediale si articola con l'ulna attraverso l'articolazione a troclea, mentre la faccetta laterale, a condilo, si articola con la testa del radio. Il radio è un osso lungo a forma di prisma triangolare. È l'osso laterale dell'avambraccio in posizione anatomica; si colloca, assieme all'ulna, tra il polso e il gomito. L'epifisi distale si articola lateralmente con lo scafoide del carpo e medialmente con il semilunare, mentre l'epifisi prossimale si articola con il condilo dell'omero e con l'incisura radiale dell'ulna.
L'ulna o cubito è un osso lungo dell'avambraccio di forma prismatica, situato medialmente, parallelo al radio in posizione anatomica. In relazione all'andamento del radio, essa risulta essere più prominente in alto e si estende, riducendo il suo volume, verso il basso. L'estremità superiore presenta un grosso rilievo che termina a becco detto olecrano, in basso ad esso è presente un altro rilievo detto processo coronoideo. L'olecrano e il processo coronoideo delimitano l'incisura semiulnare con cui l'ulna si articola con l'omero. L'estremità inferiore, molto piccola, si articola con l'incisura ulnare del radio con un'articolazione ginglimo laterale, che permette al radio di sovrapporsi all'ulna durante la pronazione.
Le numerose ossa della mano vengono suddivise in carpo, metacarpo e falangi. Il carpo è un complesso osseo costituito da due fila di ossa brevi, ciascuna delle quali rappresentata da 4 ossa, per un totale di 8 ossa carpali che costituiscono la struttura ossea del segmento distale della mano. Nell'insieme ha aspetto quadrangolare, si articola prossimalmente con le ossa dell'avambraccio, distalmente con le ossa metacarpali. Procedendo dall'esterno verso l'interno e dalla fila prossimale a quella distale, rinveniamo:
Le ossa del metacarpo sono rappresentate da cinque ossa lunghe metacarpali, numerate in senso latero-mediale dal I al V. Le falangi della mano sono costituite dalle dita e sono divise in tre serie che in senso prossimo-distale vengono denominate I, II e III falange tranne nel pollice dove non è presente la III falange. I muscoli dell'arto superiore si distinguono in intrinseci ed estrinseci. I muscoli estrinseci prendono inserzione sullo scheletro dell’arto superiore, ma hanno la loro origine al di fuori di questo; sono i muscoli spinoappendicolari e toracoappendicolari. I muscoli intrinseci presentano sia l’origine sia l’inserzione sullo scheletro dell’arto. In direzione prossimo-distale, essi si distinguono in:
I muscoli della spalla sono:
I muscoli del braccio si distinguono in anteriori e posteriori. I muscoli del braccio anteriori sono:
Nella porzione posteriore del braccio si trova il tricipite brachiale. È costituito da tre capi: capo lungo, capo laterale e capo mediale. Il capo lungo origina dalla tuberosità sottoglenoidea della scapola. Il capo laterale e quello mediale originano dalla faccia posteriore del corpo dell'omero. I tre capi si fondono in un unico muscolo che si inserisce distalmente sull'olecrano dell'ulna. La sua azione principale è quella di estendere l'avambraccio. I muscoli dell'avambraccio si distinguono in anteriori, laterali e posteriori. I muscoli anteriori dell’avambraccio sono otto e si dispongono in quattro strati sovrapposti. Lo strato superficiale è formato dai muscoli epitrocleari, così denominati perché traggono origine dall'epitroclea. Essi sono:
Il secondo strato è formato dal muscolo flessore superficiale delle dita della mano.
Al terzo strato appartengono:
Nel quarto strato, il più profondo, si trova il muscolo pronatore quadrato. I muscoli laterali dell’avambraccio sono:
I muscoli posteriori dell’avambraccio sono nove e si riuniscono in due strati di cui uno superficiale e uno profondo. I muscoli superficiali hanno tutti origine dall'epicondilo e vengono denominati perciò muscoli epicondiloidei. Essi sono:
I muscoli profondi sono:
I muscoli della mano si trovano tutti sulla faccia palmare e si distinguono in tre gruppi, uno laterale dei muscoli dell'eminenza tenar, uno mediale dei muscoli dell'eminenza ipotenar, uno intermedio dei muscoli palmari.
I muscoli dell’eminenza tenar sono:
I muscoli dell’eminenza ipotenar sono:
I muscoli palmari sono:
Lo scheletro della gabbia toracica è formato dorsalmente dal segmento toracico della colonna vertebrale, con il quale si articolano 12 paia di coste che per la maggior parte sono completate in avanti dalle cartilagini costali; la gabbia è chiusa anteriormente da un osso impari e mediano, lo sterno. Le coste (o costole) sono segmenti scheletrici formati da una parte ossea, la costa propriamente detta, che è completata in avanti da un tratto cartilagineo, la cartilagine costale. Vengono considerate fra le ossa piatte e non fra le ossa lunghe malgrado la prevalenza di un diametro, in quanto mancano di un canale midollare. Si articolano posteriormente con le vertebre toraciche e circoscrivono, come archi, gran parte della cavità toracica fino ad articolarsi anteriormente (non tutte) con lo sterno. Entrano nella costituzione, in tal modo, della gabbia toracica.
Le coste sono complessivamente 12 paia:
Lo sterno è un osso piatto, impari e mediano, che chiude anteriormente la gabbia toracica. Si estende dall’alto in basso, dal livello della terza a quello della nona vertebra toracica, con leggera obliquità verso l’avanti. È formato da tre segmenti che, in direzione cranio-caudale, si denominano manubrio, corpo e processo xifoideo, spesso fuse insieme nell’adulto. Nel suo complesso la gabbia toracica delimita e protegge gli organi interni (cuore e polmoni), offre le inserzioni per la muscolatura intrinseca ed estrinseca ad essa. Tratteremo nello specifico della biomeccanica della gabbia toracica nel capitolo dedicato alla respirazione.
I muscoli del torace si distinguono in muscoli intrinseci e muscoli estrinseci a seconda della sede in cui sono situati i loro punti di origine e di inserzione. I muscoli intrinseci del torace sono completamente localizzati nel torace e sono rappresentati da:
I muscoli estrinseci del torace si estendono a parti diverse del corpo e sono rappresentati in particolare da:
Fra i principali toracoappendicolari citiamo:
Approfondiremo l’anatomia del diaframma nel capitolo dedicato alla respirazione.
L'addome è la parte del tronco che si trova tra il torace e la pelvi. Manca di un dispositivo scheletrico in corrispondenza delle sue parti anteriore e laterali dove si trovano muscoli e fasce; dorsalmente, invece, lo scheletro è dato dal tratto lombare del rachide. Le pareti dell’addome delimitano la cavità addominale che è superiormente chiusa dal diaframma; inferiormente la cavità prosegue nella cavità pelvica.
I principali muscoli dell’addome sono:
A questi si aggiungono:
È costituito dalle due ossa dell’anca, dall’osso sacro e dal coccige a formare la parte inferiore del tronco o bacino. L’osso dell’anca è un osso piatto, pari e simmetrico costituito dalla fusione di tre parti: ileo, ischio e pube. L’ileo fornisce la superficie articolare per il femore (acetabolo o cavità cotiloidea). La faccia interna costituisce la fossa iliaca, delimitata superiormente dalla cresta iliaca e inferiormente dalla linea arcuata. La cresta termina nella spina iliaca palpabile sotto la cute. Medialmente l’ileo si articola con un’ampia faccia articolare con l’osso sacro (artrodia).
L’ischio prende parte con l’ileo alla formazione dell’acetabolo. Si presenta come un ramo a forma di “C” aperta anteriormente che nella parte posteriore forma la tuberosità ischiatica e superiormente la spina ischiatica. Il pube costituisce la parte antero – inferiore dell’acetabolo. Possiede un ramo a forma di “C” aperta posteriormente che si salda con il ramo dell’ischio e antero – superiormente con l’ileo. I due rami contro laterali si articolano mediante la sinfisi pubica. Il foro otturatorio è un ampio orifizio costituito dall’unione dei rami ileo – pubico e ischio – pubico ed è chiuso dalla membrana otturatoria che dà passaggio a vasi e nervi.
I muscoli del cingolo pelvico si dividono in muscoli interni (ileopsoas e piccolo psoas) e muscoli esterni (grande, medio e piccolo gluteo). Il muscolo ileopsoas è costituito dal grande psoas e dal muscolo iliaco. Il grande psoas origina dai corpi della dodicesima vertebra toracica e dalle ultime quattro vertebre lombari e si inserisce con un tendine che si fonde con quello iliaco sul piccolo trocantere del femore. Il muscolo iliaco origina dalla superficie interna della fossa iliaca.
L’ileopsoas se prende punto fisso sul bacino e sulla colonna, flette la gamba. Se prende punto fisso sul femore, per l'azione del muscolo grande psoas porta in iperlordosi il tratto lombare della colonna vertebrale, per azione del muscolo iliaco bascula anteriormente il bacino. Entrambi i muscoli partecipano attivamente alla deambulazione eretta.
I glutei costituiscono il rilievo delle natiche e hanno funzione determinante nel mantenimento della stazione eretta (bacino verticale). Il grande gluteo origina dalla parte posteriore della cresta iliaca e dalla faccia esterna dell’ileo, dal margine laterale del sacro e del coccige e si inserisce sulla tuberosità glutea della diafisi femorale. Estende e ruota lateralmente la coscia. Il gluteo medio ha forma di ventaglio, ha origine dalla parte media della faccia esterna dell’ileo e i suoi fasci, convergendo verso il basso, si inseriscono sulla faccia esterna del grande trocantere. Ha azione abducente sulla coscia. Il piccolo gluteo origina dalla porzione anteriore della faccia esterna dell’ala iliaca e si inserisce sulla superficie anteriore del grande trocantere. Si contrae insieme al medio gluteo durante la deambulazione.
Lo scheletro dell’arto inferiore è costituito dal femore (coscia), dalla rotula o patella a livello del ginocchio, dalla tibia e dal perone (gamba), oltre che dalle numerose ossa del piede. Il femore è un osso lungo la cui epifisi prossimale possiede una testa emisferica che si articola con l’anca (articolazione coxofemorale) e possiede un robusto legamento (legamento rotondo) che unisce e fissa la testa femorale al fondo dell’acetabolo. Alla testa segue una porzione ristretta, il collo anatomico, unito al corpo con un’angolazione di circa 120°. Inferiormente e posteriormente al collo e al corpo vi sono due protuberanze, grande e piccolo trocantere, per l’inserzione di muscoli. Il limite tra epifisi prossimale e diafisi è dato dal collo chirurgico. La diafisi è cilindrica ma si allarga a cono appiattito inferiormente, è attraversata posteriormente dalla linea aspra che dà inserzione ai muscoli e si allarga inferiormente a formare il piano popliteo. L’epifisi distale si articola con la tibia e possiede due condili, mediale e laterale. Anteriormente le superfici dei condili si fondono e costituiscono la troclea femorale per l’articolazione con la superficie articolare della rotula o patella. Quest’ultima è un voluminoso osso breve sesamoide, accolto nello spessore del tendine del quadricipite femorale, posto davanti alla troclea. L’articolazione coxofemorale (dell’anca) è un’enartrosi costituita dalla testa del femore e dall’acetabolo dell’anca.
I muscoli della coscia si dividono in anteriori, mediali e posteriori. Fra gli anteriori abbiamo il tensore della fascia lata, il sartorio ed il quadricipite femorale. I mediali sono il muscolo gracile, il pettineo, e gli adduttori lungo, breve e grande. I muscoli posteriori comprendono il bicipite femorale, il semitendinoso e il semimembranoso. Il m. tensore della fascia lata è superficiale ed è posto nella regione supero–laterale. Origina dal labbro esterno della cresta iliaca e dalla spina iliaca antero–superiore. Si inserisce come tendine al condilo laterale della tibia. Contraendosi abduce la coscia. Il m. sartorio attraversa tutta la faccia anteriore della coscia, decorrendo dall’alto in basso e dall’esterno verso l’interno. Origina dalla spina iliaca antero–superiore e si inserisce sulla faccia mediale dell’epifisi prossimale della tibia per mezzo di un tendine comune ai muscoli gracile e semitendinoso, il quale, per la sua forma, prende il nome di zampa d’oca. Flette la gamba e la coscia, abduce e ruota all’esterno la coscia. Il m. quadricipite femorale è il muscolo più voluminoso del corpo. È formato da quattro capi, il retto del femore, il vasto mediale, il vasto laterale e il vasto intermedio. A livello del ginocchio, i quattro capi si riuniscono in un tendine unico che si inserisce sulla patella e, tramite questa, sulla tuberosità della tibia. Contraendosi estende la gamba e flette la coscia, come nell’atto di calciare.
Gli adduttori sono disposti medialmente a diverse profondità, originano dalla parte superiore del pube (adduttore lungo, adduttore breve) e dalla faccia anteriore della branca ischiopubica e dalla tuberosità ischiatica (grande adduttore) e si inseriscono sulla linea aspra del femore. Adducono, extrarotano ed intrarotano la coscia. Il m. bicipite femorale ha due capi di origine, uno lungo origina dalla tuberosità ischiatica, il breve dalla linea aspra. Il tendine di inserzione comune prende attacco sulla testa della fibula (o perone) e sul condilo laterale della tibia. Contraendosi flette la gamba ed estende la coscia. Lo scheletro della gamba è costituito da tibia e perone. La tibia è un osso lungo a sezione triangolare, il cui margine anteriore è piuttosto affilato ed è apprezzabile sotto la cute essendo molto superficiale (cresta tibiale anteriore). Superiormente è presenta la tuberosità tibiale per l’inserzione del tendine del m. quadricipite femorale, mentre inferiormente vi è la linea poplitea per l’inserzione del muscolo popliteo. L’epifisi prossimale è allargata a piramide con la base provvista di due facce articolari condiloidee per il femore divise da un rilievo (eminenza intercondiloidea). L’epifisi distale, meno voluminosa, presenta una sporgenza mediale, il malleolo. Inferiormente è presente una faccia articolare (troclea) per l’astragalo (piede), lateralmente una superficie articolare (artrodia) per il malleolo del perone. Il perone o fibula è un sottile osso lungo, posto lateralmente alla tibia, a sezione irregolarmente quadrangolare. La testa presenta una faccetta per l’articolazione con il condilo laterale della tibia, mentre l’estremità distale forma il malleolo laterale, che si articola medialmente con la tibia e inferiormente con l’astragalo.
L’articolazione del ginocchio (un ginglimo angolare) è costituita dai due condili femorali e dalle superfici articolari dei condili della tibia. Essendo i punti di contatto molto limitati tale articolazione è provvista di menischi che eliminano le incongruenze di superficie. I menischi, mediale e laterale, hanno forma di C e funzione ammortizzatrice. L’articolazione è dotata di numerosi legamenti che provvedono alla stabilità dell’articolazione. I principali sono il legamento collaterale laterale (o fibulare), il legamento collaterale mediale (o tibiale) e due legamenti crociati, anteriore e posteriore. I due legamenti collaterali evitano movimenti di flessione esterna o interna del ginocchio e assicurano i movimenti di flessione della gamba sulla coscia. I due legamenti crociati, tesi fra tibia e femore, rappresentano i mezzi di unione più resistenti ed impediscono lo scivolamento in avanti e indietro del femore e della tibia (movimenti a cassetto).
I muscoli della gamba possono essere divisi in un gruppo anteriore, un gruppo laterale ed un gruppo posteriore. Del primo gruppo fanno parte il tibiale anteriore, l’estensore dell’alluce e gli estensori delle dita. Dei laterali fanno parte il peroniero lungo e breve. I muscoli posteriori comprendono il muscolo gastrocnemio, il soleo, il plantare, il tibiale posteriore, il flessore lungo delle dita e il flessore lungo dell’alluce. Il m. tibiale anteriore origina dal condilo laterale e dalla faccia laterale della tibia per inserirsi al 1° osso cuneiforme e alla base del 1° osso metatarsale. Flette dorsalmente, adduce e ruota medialmente il piede, realizzando un movimento complesso di supinazione del piede. Il m. estensore lungo delle dita origina dal condilo laterale della tibia, dalla testa e dai due terzi del margine superiore del perone.
Il suo tendine di inserzione si divide in 4 inserendosi al 2°, 3°, 4° e 5° dito. Estende le ultime 4 dita e coopera alla flessione dorsale, all’abduzione e alla rotazione esterna del piede. Il m. estensore lungo dell’alluce origina dal terzo medio della fibula formando un tendine nel terzo inferiore della gamba inserendosi alla faccia dorsale della prima falange. Estende l’alluce e coopera nella flessione dorsale, adduzione e rotazione interna del piede. Il m. peroniero lungo origina dalla testa della fibula nonché dal condilo laterale della tibia. Possiede un lungo tendine d’inserzione che passa dietro il malleolo laterale e si porta alla superficie plantare andando a inserirsi sul 1° osso metatarsale, sul 1° osso cuneiforme e sul 2°osso metatarsale. Flette plantarmente, abduce e ruota all’esterno il piede, realizzando un movimento contrario a quello tibiale anteriore detto extratorsione. Il m. peroniero breve origina dal terzo medio della fibula e si inserisce sulla tuberosità del 5° osso metatarsale. Abduce e ruota all’esterno il piede.
Il m. tricipite della sura risulta formato da due muscoli, il gastrocnemio e il soleo, che si uniscono in un unico tendine di inserzione, detto tendine di Achille. Il m. soleo è più profondo e origina dalla testa della fibula e si porta alla linea obliqua della tibia. Il gastrocnemio è più superficiale e si compone di due capi, uno laterale e uno mediale, detti anche muscoli gemelli. Il capo laterale origina dall’epicondilo laterale del femorale, quello mediale dall’epicondilo mediale. Flette plantarmente il piede e lo intrarota. Il m. popliteo origina dalla faccia esterna del condilo laterale del femore e si inserisce sulla linea obliqua della tibia. Flette e intrarota la gamba. Il m. flessore lungo delle dita origina dalla linea obliqua della tibia e si divide in 4 tendini in corrispondenza della falange distale delle dita 2° - 4°. Flette le ultime 4 dita e coopera alla flessione plantare del piede. Il m. flessore lungo dell’alluce origina dalla fibula e si inserisce sulla falange distale dell’alluce. È di estrema importanza nel mantenimento della stazione eretta e nella stabilità del piede, grazie alla sua azione che consiste nello schiacciare fortemente l’alluce al suolo. Il m. tibiale posteriore è il più profondo, origina dal labbro inferiore della linea obliqua e dalla faccia posteriore della tibia, dalla parte superiore della membrana interossea, dalla faccia mediale della fibula e dai setti intermuscolari circostanti. Continua con un tendine che decorre dietro il malleolo mediale e che si divide in due fasci: il fascio mediale, più robusto si fissa alla tuberosità dell'osso navicolare (o scafoide), il fascio laterale, più debole si inserisce alle tre ossa cuneiformi. Flette plantarmente il piede e coopera alla supinazione.
Lo scheletro del piede è costituito da tre gruppi di ossa che si estendono in direzione postero-anteriore: il tarso, il metatarso e le falangi. Le ossa del tarso sono sette e sono dotate di una reciproca mobilità. Formano un complesso osseo che comprende l’astragalo, il calcagno, lo scafoide, il cuboide e le 3 ossa cuneiformi. L’astragalo è un osso breve che collega il piede con la gamba, presentando numerose superfici articolari. L’articolazione tibiotarsica è una troclea a cui partecipano congiuntamente sia la tibia che il perone, tenuti insieme dalla capsula articolare e dai legamenti.
Il principale movimento è la flessoestensione. Inferiormente l’astragalo si articola con il calcagno (articolazione sottoastragalica) mentre anteriormente con lo scafoide mediante un’enartrosi. Il calcagno è un osso breve e forma una concavità inferiore assieme all’osso cuboide che è posto anteriormente a esso (sella). Posteriormente il calcagno dà attacco al tendine d’Achille del muscolo tricipite della sura. Anteriormente allo scafoide e superiormente al cuboide vi sono le tre ossa cuneiformi. L’articolazione medio-tarsica (detta di Chopart) unisce la fila distale delle ossa del tarso (scafoide e cuboide) a quella prossimale (astragalo e calcagno).
Le ossa del metatarso sono cinque ossa lunghe incurvate verso il lato plantare. La loro estremità prossimale si articola con le ossa cuneiformi e il cuboide mediante artrodie, mentre quella distale con le falangi mediante troclee. L’articolazione fra le ossa tarsali e quelle metatarsali viene detta di Lisfranc. Le falangi, tre per ogni dito con l’eccezione del primo che ne possiede due, sono piccole ossa lunghe articolate tra loro mediante troclee.
I muscoli del piede si dividono in dorsali e plantari; questi ultimi si dividono in mediali, laterali e intermedi. La regione dorsale contiene solo un muscolo, l’estensore breve delle dita, mentre la regione plantare ha numerosi muscoli perlopiù flessori delle dita del piede. Il m. estensore breve delle dita origina dalla faccia superiore del calcagno e si divide in quattro ordini di fasci per inserirsi sulle prime quattro dita estendendole. Fra i muscoli plantari mediali abbiamo: m. abduttore dell’alluce, m. flessore breve dell’alluce, m. adduttore dell’alluce. I muscoli plantari laterali comprendono: m. abduttore del quinto dito, m. flessore breve del quinto dito, m. opponente del quinto dito.
I plantari intermedi sono: m. flessore breve delle dita, origina dalla tuberosità calcaneare e dalla fascia plantare dividendosi poi in quattro fasci che si inseriscono con due piccoli tendini sulla faccia plantare della seconda falange delle ultime quattro dita. Flette la falange media del 2°, 3°, 4° e 5° dito; il m. quadrato della pianta che coopera con il flessore breve delle dita; i mm. Lombricali sono in numero di quattro, flettono la prima falange ed estendono la seconda e la terza del 2°, 3°, 4°, 5° dito; i mm. Interossei sono sette, tre plantari e quattro dorsali, sono posti negli spazi intermetatarsali.
Nel corso di questo capitolo approfondiremo le applicazioni del taping neuromuscolare nelle alterazioni posturali di più frequente riscontro. Ogni applicazione verrà preceduta dalla descrizione dettagliata dell’alterazione posturale che andremo a trattare con l’applicazione del taping e l’intervento coadiuvato della ginnastica posturale. Un binomio che scopriremo essere fra i più efficaci nelle problematiche della postura.
È importante “conoscere il proprio corpo” per poterlo utilizzare al meglio. Questo dovrebbe essere il grande obiettivo da porsi nelle sedute rieducative di ginnastica posturale. Non semplicemente il rinforzo settoriale di masse ipotoniche o l’allungamento di muscoli retratti, non ipercorrezione per cercare di raggiungere modelli di perfezione, ma la ricerca della migliore forma di “convivenza” e adattamento possibile fra l’individuo e l’ambiente. Ciò è attuabile solo attraverso la più profonda e completa conoscenza del proprio corpo. Pertanto, il concetto di postura non può essere ridotto ad una condizione statica, definita ed immutabile nel tempo. L’organismo di volta in volta, sulla base delle informazioni tattili, cinestesiche, sensoriali, che arrivano al S.N.C. elabora la risposta posturale più adatta in riferimento alle condizioni ambientali, in quel dato momento e per i programmi motori previsti. Le ossa, i muscoli e le articolazioni sono soltanto gli “effettori” di un complesso apparato deputato al controllo posturale che chiameremo Sistema Tonico Posturale (S.T.P.).
Una delle alterazioni più comuni che si possono riscontrare ai piedi, specie nei bambini, è il cosiddetto piede piatto. Per tale si intende una condizione nella quale l’arco longitudinale mediale del piede si presenta più basso rispetto al normale, se non del tutto schiacciato al suolo, per cui il piede si trova ad appoggiare con l’intera pianta o gran parte di essa.
L’alterato appoggio del piede agisce negativamente sui recettori gravitari perché non permette la corretta recezione degli stimoli ambientali. Oltre alla funzione meccanica viene quindi alterata anche la funzione sensoriale podalica, fondamentale per l’equilibrio posturale. In rapporto all’età distinguiamo:
In verità la maggior parte dei piedi piatti appartenenti al secondo e al terzo gruppo non sono altro che l’evoluzione peggiorativa di un piede piatto statico dell’infanzia, evoluzione che si realizza in una percentuale minore dei casi, mentre nella rimanente parte essa è spontaneamente favorevole, portando ad una guarigione clinica. È soprattutto quindi il piede piatto dell’infanzia quello che si presenta più spesso all’osservazione clinica. L’utilizzo di un podoscopio permette di valutare l’appoggio del piede e quindi l’entità del piattismo. In condizioni normali la larghezza dell’istmo, ossia la zona del mesopiede che poggia sul bordo esterno e unisce il tallone posteriore a quello anteriore, dovrebbe essere pari a circa un terzo rispetto alla larghezza dell’avampiede.
Nel piede piatto la superficie dell’istmo aumenta fino a due terzi (piede piatto di I grado), può coprire tutta la pianta (piede piatto di II grado) o superare addirittura il bordo mediale sporgendo oltre la superficie della pianta (piede piatto di III grado). Il piede piatto non deve mai essere considerato come un evento morboso localizzato, ma deve essere sempre inserito in una sindrome posturale più complessa. Il piede è un elemento fondamentale all’interno del Sistema Tonico Posturale e va sempre osservato e valutato in un’ottica globale e non compartimentale. Particolare attenzione deve essere sempre posta alle ripercussioni sovra-segmentarie, al tipo cioè di postura che può associarsi a tale affezione. L’iperpronazione del piede piatto può accompagnarsi alla rotazione interna degli arti inferiori, con tendenza al valgismo del retropiede e delle ginocchia e al flexum, cui segue l’inclinazione in avanti del bacino (antiversione), che a sua volta determina l’aumento di lordosi lombare, ipercifosi dorsale e iperlordosi cervicale di compenso, caratterizzando in tal modo la postura di questi soggetti.
La marcia avviene sovente in extraversione (o a punte in fuori) per compensare la rotazione interna degli arti inferiori. Ciò, ovviamente, se non intervengono altri recettori posturali squilibrati e se il piede è quindi elemento causativo di una sindrome posturale di tipo ascendente. La condizione più frequente in assoluto che si accompagna al piede piatto è il retropiede valgo. Si definisce retropiede valgo quando l’angolo esterno che si forma tra l’asse della gamba e l’asse del calcagno è minore di 180°. È una condizione che si presenta spesso nel corso dell’infanzia. In un’indagine condotta nel 2015 su bambini della scuola primaria fra i 6 e gli 11 anni, sui 114 casi esaminati, in 60 casi sono stati rilevati alterazioni a livello del retropiede (52,6% del totale). Di questi 52 presentano un retropiede valgo (45,6%), 8 invece un retropiede varo (7%).
Un ulteriore analisi dei dati ci permette di osservare come retropiede valgo e piede piatto abbiano un’alta correlazione (0,7) così come retropiede valgo e piede cavo (0,6). Altre correlazioni frequenti sono quelle fra piede cavo e ginocchio varo (0,4) e fra piede piatto e ginocchio valgo (0,4). Rare invece le correlazioni fra piede piatto e retropiede varo (0,1) e fra piede piatto e ginocchio varo (0,1).
In generale, quindi, le alterazioni dell’appoggio podalico non vanno mai considerate come eventi morbosi localizzati, ma come condizioni che determinano modifiche e compensi sulla postura nel suo complesso.
Come detto il valgismo del retropiede è una delle condizioni in assoluto più frequenti, specie nei bambini, si ritrova spesso in associazione con il piede piatto. L’applicazione del taping in combinazione con gli esercizi posturali, più avanti descritti, permetterà una più rapida e semplice risoluzione dell’alterazione. Posizioniamo il soggetto in decubito supino con articolazione tibio-tarsica neutra. Prepareremo due bende, la prima con lunghezza da sotto il malleolo peroneale fino al condilo tibiale esterno, passando sotto la volta plantare e avanti al malleolo tibiale. Taglieremo il nastro considerando la tensione da applicare, fra il 50%-80%. Applicheremo la prima ancora sul margine esterno del piede, sotto il malleolo peroneale, passando sotto la volta plantare sempre a tensione 0%. A questo punto porteremo in leggero varismo l’articolazione tibio-tarsica e applicheremo tensione al nastro, lungo il decorso del tibiale anteriore, terminando l’applicazione con un’ancora di circa 5 cm appena sotto il livello del condilo tibiale esterno. La seconda benda con lunghezza di circa 2/3 rispetto alla prima, l’applicheremo un po’ anteriore rispetto alla precedente, sovrastandola di circa 2 cm. Seguiremo lo stesso procedimento e la medesima traiettoria, terminando con un ancoraggio di circa 5 cm.
Il trattamento rieducativo del piede piatto-valgo, utile anche nel caso di alluce valgo, si avvale di esercizi che vadano a determinare un rafforzamento delle strutture muscolari, specie della muscolatura cavizzante (peroneo lungo e breve, tibiale posteriore e flessori delle dita e dell’alluce), oltre alla stimolazione della funzione propriocettiva e di equilibrio del piede. Il piede piatto va considerato infatti come una malattia tipica del progresso e della civilizzazione, la diretta conseguenza del camminare continuamente su superfici piane e dure o con calzature strette e rigide. Recenti studi hanno messo a confronto bambini occidentali a quelli indiani o africani. Il risultato della ricerca è che i bambini che camminavano scalzi su superfici non lisce (sabbia, erba, terra) sviluppavano piedi più sani di quelli che usavano scarpe correttive e plantari. Questo perché camminare a piedi nudi permette un lavoro di elaborazione, informazione e attivazione dei muscoli dei piedi che viene quasi annullato con la scarpa. La funzione propria del piede quale organo sensoriale e “conoscitivo” è ancora più manifesta ed evidente nei neonati: basti osservare come essi tendano continuamente ad afferrare i loro piedi, a portarli alla bocca, a muoverli continuamente. Il piede è quindi uno strumento conoscitivo fondamentale fin dalle prime fasi di vita dell’uomo ma che tuttavia per le abitudini moderne, fra tutte quella dell’utilizzo di calzature, tende a perdere col tempo questa sua naturale funzione. È tuttavia necessario evitare che i bambini camminino scalzi dovunque.
A differenza di quanto si credeva, è salutare camminare scalzi solo su superfici morbide, che si arrendono facilmente all’impronta del piedino. Infatti, superfici troppo rigide, come ad esempio il pavimento di casa, non fanno altro che accentuare il piattismo. Gli esercizi di rinforzo muscolare possono prevedere:
Per lo sviluppo della funzione propriocettiva del piede di ausilio sono esercizi di equilibrio in appoggio monopodalico o bipodalico su tavolette o panche oscillanti, su tappetino morbido o strumenti per l’equilibrio quali il bosu (nell’immagine sottostante).
Per favorire lo sviluppo del piede in modo corretto bisogna puntare sull’attività fisica consigliando la pratica di sport che richiedono una grande sollecitazione motoria ma anche propriocettiva del piede come le arti marziali, la danza, la ginnastica artistica e l’atletica.
L’alluce valgo è una delle condizioni patologiche più frequenti dell’avampiede e che più preoccupa, non soltanto da un punto di vista funzionale ma anche estetico. È una deformità caratterizzata dalla deviazione verso l’esterno del primo dito, in direzione del secondo, e verso l’interno del primo metatarso. La conseguenza diretta è la preminenza della prima testa metatarsale, nota comunemente come “cipolla”, il cui conflitto con la calzatura causa secondariamente infiammazione e dolore. Per il suo sviluppo è stata riscontrata una certa predisposizione familiare, si associa a una lassità legamentosa e muscolare dei flessori dell'alluce e dei muscoli della volta plantare, è frequentemente accompagnato dal piede piatto. Colpisce molto più le donne rispetto agli uomini, specie in età adulta, per ragioni legate al tipo di calzatura utilizzata ed all’assetto ormonale femminile rispetto a quello maschile. Le forme che si manifestano in giovane età sono più spesso quelle congenite. L’uso di scarpe strette e con il tacco può favorire l’insorgere della patologia in quanto aumentano l’attrito in corrispondenza della testa del 1° metatarso.
Oltre a lesioni cutanee (callosità, ulcerazioni), sono frequenti anche le deformazioni “a martello” del secondo e terzo dito, e la comparsa di metatarsalgia, per i sovraccarichi sulla teste metatarsali centrali per la “fuga dal dolore”. Quest’ultimo aspetto può portare a veri e propri squilibri posturali che possono essere all’origine di problemi a carico di altre articolazioni soprastanti (caviglia, ginocchio, anca, colonna).
Preparare 4 sottili strisce di tape, lunghe non più di 3-4 cm, ed applicarle sopra la testa metatarsale sublussata senza tensione, in modo da formare una sorta di asterisco.
Preparare una striscia di tape con larghezza 2,5 cm, prendiamo la misura dal primo dito, fino a girare dietro al tallone ed arrivare sotto al malleolo esterno. Taglieremo il nastro considerando la tensione da applicare, fra il 50%-80% in base alla deformità. Applicheremo l’ancora poggiandola lateralmente al primo dito, senza toccare l’unghia, per poi applicare la tensione ed effettuare l’altro ancoraggio sotto il malleolo esterno. Si dovrebbe osservare fin da subito un parziale raddrizzamento del dito.
Un’applicazione indicata anche per gli sportivi, durante la prestazione in gara o l’allenamento, per evitare il conflitto della testa metatarsale sporgente con la calzatura e quindi il dolore.
Secondo una definizione classica, con i termini di valgismo e varismo si fa riferimento a delle anomalie del normale allineamento dell’arto inferiore. Il ginocchio dell’adulto presenta in maniera fisiologica un certo grado di valgismo che viene definito dall’angolo aperto formato dall’asse longitudinale del femore con quello della tibia e misura da 177° a 170°. Tale angolo è maggiore nella donna rispetto all’uomo perché il bacino è più largo e il femore ha un’obliquità maggiore. Il ginocchio valgo indica una ridotta angolazione a vertice laterale dell’asse femoro-tibiale, inferiore ai 170°. Le ginocchia appaiono a X, tendono cioè a toccarsi verso l’interno mentre i piedi si distaccano. Può essere considerata una condizione fisiologica nel bambino dai 2 fino ai 7-8 anni, che tende ad una risoluzione spontanea in un gran numero di casi. Se persiste in età successive spesso è probabilmente dovuto alla familiarità e diviene un ginocchio valgo vero o essenziale. Questa alterazione è spesso legata ad uno squilibrio fra l’accrescimento osteogenetico e la capacità muscolo-legamentosa. Alcuni autori per valutare l’entità del valgismo fanno riferimento alla distanza intermalleolare, generalmente superiore ai 5 cm nel ginocchio valgo.
Questa condizione crea nell’adulto sovraccarichi compartimentali a livello della parte esterna del ginocchio, al contrario i legamenti interni sono distesi e lassi, oltre a problemi deambulatori e adattamenti a livello podalico. Nel ginocchio varo l’angolo esterno fra l’asse del femore e la tibia è superiore ai 175°. Le ginocchia si distanziano fra di loro e nel complesso i due arti inferiori sembrano aprirsi come a formare una O. La curvatura investe sia la diafisi femorale sia quella tibiale. Nella prima infanzia fino ad un anno è considerato normale e spesso apparente, dovuto al grasso sulle cosce e alla condizione di sviluppo che genera il pannolino. Nelle età successive è una condizione comunque decisamente più rara rispetto al ginocchio valgo. La deformità in varismo porta ad un sovraccarico del compartimento interno del ginocchio con degenerazione artrosica nell’adulto, abbinandosi a distensione e instabilità progressiva delle strutture legamentose esterne.
Chiaramente anche in questo caso vi potranno essere adattamenti a livello podalico. Approfondendo lo studio delle catene muscolari, in riferimento alla descrizione delle catene di apertura e chiusura offerta da Leopold Busquet, è possibile arricchire ulteriormente la visione classica delle deformità del ginocchio, fin qui eccessivamente analitica. La catena di apertura, continuazione della catena crociata posteriore del tronco, influenza:
Una sua iperprogrammazione contribuisce ad un allungamento funzionale dell’arto inferiore e riduce quindi:
La catena di chiusura (Fig. 3.4), continuazione della catena crociata anteriore del tronco, influenza:
L’iperprogrammazione di questa catena contribuisce all’accorciamento funzionale dell’arto inferiore e amplifica:
Le catene crociate, di apertura e chiusura, sono deputate al movimento e predisposte per la dinamica. Quando il muscolo, per adattamenti posturali come nei casi di valgismo e varismo, viene sollecitato a lavorare in modo continuo e statico, diviene più fibroso e degenera verso il connettivo, diminuendo la propria vascolarizzazione. Ciò determina un adattamento posturale “a spirale”. Tali adattamenti, se non interpretati bene, possono condurre a diagnosi di eterometrie lì dove invece le “false” differenze di lunghezza degli arti inferiori (dismetrie), sono prodotte dall’asimmetrica programmazione in uno stesso soggetto delle catene di apertura e chiusura. Il riequilibrio posturale si otterrà allora lavorando sulla stimolazione delle catene e non con inutili e dannosi rialzi sotto il piede.
Il valgismo di ginocchio si accompagna sovente ad una debolezza degli adduttori della coscia, allungati e ipotonici, contrariamente gli abduttori saranno contratti e ipertonici. Il quadricipite, specie il vasto mediale, è debole e non stabilizza il ginocchio, con possibile strabismo rotuleo. La deviazione causa nel tempo dei sovraccarichi nel compartimento esterno del ginocchio, con la possibile comparsa di fenomeni artrosici. L’applicazione del taping posturale, unita agli esercizi rieducativi, può contribuire a rafforzare la muscolatura che agisce contro l’alterazione, specie in età evolutiva. Posizioniamo il soggetto in decubito supino con articolazione del ginocchio da bendare in leggera flessione, eventualmente faremo appoggiare la gamba sopra un cuscino a livello del cavo popliteo. Prepareremo due bende con diversa lunghezza: la prima dalla tuberosità tibiale al terzo prossimale del femore. La seconda con un taglio a “Y” dalla faccia mediale dell’epifisi prossimale della tibia fino alla sinfisi pubica. Taglieremo il nastro considerando la tensione da applicare, circa l’80%. Applichiamo il primo nastro con l’ancora, con tensione 0%, che passa lateralmente e sopra la tuberosità tibiale, con un andamento obliquo copriremo per circa metà la rotula. Metteremo una tensione dell’80% coprendo il vasto mediale e terminando l’applicazione con un ancoraggio di circa 5 cm a livello del terzo prossimale del femore. Applichiamo il secondo nastro con l’ancora, a tensione 0%, leggermente sotto l’epifisi prossimale della tibia. Mettiamo tensione 80% e applicheremo le due strisce a livello degli adduttori, terminando con gli ancoraggi di circa 5 cm il più vicino possibile alla sinfisi pubica.
Con il soggetto in piedi prepareremo due tape a banda intera che avvolgeranno sopra e sotto il ginocchio, passando lateralmente alla rotula. Taglieremo il nastro considerando la tensione da applicare, circa il 50%. Applichiamo il primo nastro lateralmente alla rotula con un’ancora centrale a tensione 0%. Procediamo avvolgendo il ginocchio sopra e sotto con la tensione voluta e terminando l’applicazione con gli ancoraggi. Ripetiamo lo stesso procedimento con l’altra benda dal lato opposto.
Gli esercizi rieducativi si pongono l’obiettivo di andare a rinforzare quella muscolatura che tipicamente si presenta più debole, coadiuvando così l’effetto ottenuto con l’applicazione del taping posturale.
In posizione supina con braccia lungo i fianchi, una gamba distesa con piede a martello, l’altra flessa con la pianta del piede in appoggio, espirare e sollevare lentamente la gamba distesa fino a raggiungere la stessa altezza fra le due ginocchia, inspirare e tornare lentamente alla posizione iniziale. Ripetere con lo stesso arto per 5 volte prima di cambiare lato. Oltre al rinforzo della muscolatura della coscia questo esercizio è utile per acquisire il controllo della posizione della colonna quando gli arti inferiori si muovono.
Dalla posizione di decubito laterale con la testa in appoggio sul braccio piegato, la gamba in appoggio col pavimento è distesa, quella sopra incrocia sull’altra, eseguire lentamente un’adduzione della gamba distesa portandola verso l’alto, lentamente poi tornare alla posizione iniziale. Ripetere l’esercizio 5 volte per lato. L’esercizio può essere reso più intenso mantenendo l’adduzione dell’arto inferiore per 3 respirazioni complete.
Quando parliamo di iperlordosi ci riferiamo ad una condizione in cui si ha un’accentuazione della curvatura fisiologica a convessità anteriore della colonna a livello cervicale o lombare. L’iperlordosi lombare è in particolare caratterizzata da una convessità profonda della colonna in zona lombare, a causa della quale il soggetto tende a portare i glutei indietro e l’addome sporgente in avanti, con il bacino che tende all’inclinazione anteriore (antiversione). In particolare, la condizione è considerata patologica quando l'angolo di curvatura lombare è maggiore di 40-50°. Può essere la conseguenza di anomalie morfologiche scheletriche della colonna e/o del bacino. Può anche dipendere da un eccessivo peso corporeo che grava in particolare sulla muscolatura addominale che progressivamente cede al peso eccessivo, tipico della gravidanza. Generalmente è una condizione che interessa in particolar modo il sesso femminile, sia per conformazione ossea del bacino che per abitudini culturali.
È un disturbo piuttosto comune, spesso derivante dall’assunzione prolungata di posture sbagliate ma che si ritrova anche in chi pratica attività lavorative in cui si è soliti portare a lungo scarpe col tacco o in certe categorie sportive come danzatrici o ginnaste, per i continui movimenti in estensione del tratto lombare. Kendall individua nell’atteggiamento lordotico una debolezza della muscolatura addominale come degli hamstring (bicipite femorale, semitendinoso e semimembranoso) e degli estensori dell’anca (glutei). Al contrario i muscoli inferiori del dorso e i flessori dell’anca (soprattutto l’Ileo- psoas) sono brevi e forti. Nell’età dello sviluppo l’eccesiva curva lordotica è spesso rieducabile attraverso una semplice attività preventiva di ginnastica posturale. È bene sapere, tuttavia, che l’iperlordosi, lombare e cervicale, può essere semplicemente il compenso di una ipercifosi accentuata a livello dorsale. Parleremo in questo caso di atteggiamento cifo-lordotico.
Posizioniamo il soggetto seduto su una sedia o sgabello e ci poniamo alle sue spalle. Chiediamo una flessione anteriore del busto, con gli avambracci in appoggio sulle cosce. Prepariamo tre bande a “Y” con lunghezza dal sacro fino alle ultime vertebre dorsali. Applichiamo la prima ancora centralmente sul sacro e le due code, a tensione 0%, lateralmente alle vertebre lombari. Applichiamo le altre due ancore ai lati di quella centrale e le code che seguono la stessa direzione di quelle centrali. Una volta terminato il bendaggio chiederemo al soggetto di alzarsi, risulteranno evidenti le numerose convoluzioni che permetteranno di decomprimere il tessuto.
Andremo ora ad analizzare due ottimi esercizi per decomprimere e decontratturare il tratto lombare che possano coadiuvare l’azione del taping posturale.
In posizione supina con gambe distese e braccia lungo i fianchi, portare in maniera lenta un ginocchio verso il petto, strisciando la pianta del piede a terra, ed afferrarlo con entrambe le mani senza effettuare pressione alcuna. Mantenere la posizione per 3 respirazioni complete prima di distendere lentamente la gamba e ripetere dal lato opposto. Eseguire 5 volte per lato.
In posizione supina con gambe distese e braccia lungo i fianchi, portare lentamente un ginocchio verso il petto, strisciando il piede a terra, ed afferrare con la mano dallo stesso lato, contemporaneamente il braccio controlaterale si alzerà indietro. Mantenere la posizione raggiunta per 3 respirazioni complete prima di distendersi lentamente e cambiare lato. Il movimento degli arti deve essere fluido e coordinato. Eseguire 5 volte per lato.
L’ipercifosi dorsale rappresenta un'accentuazione della normale curvatura dorsale del rachide, tale da determinare un atteggiamento di chiusura del soggetto in corrispondenza della gabbia toracica con spalle anteposte. Si parla di cifosi patologica o ipercifosi dorsale quando l'angolo della cifosi dorsale è maggiore di 35°. Si tratta di una delle alterazioni posturali più comuni, che può avere cause psicologiche, posturali, educative, e soprattutto legate alle abitudini e alla professione. Sono infatti la sedentarietà e l'assunzione di posizioni scorrette, a casa o a lavoro, a determinare spesso l'accentuarsi della fisiologica curvatura cifotica dorsale, quando chiaramente non vi sia una causa congenita o una patologia (come osteocondrosi o malattia di Scheuermann) a determinarla. Il periodo di maggiore incidenza è quello della pubertà, per indebolimento dei muscoli erettori del tronco cui consegue un’accentuazione della curva fisiologica. Si riscontra spesso anche in soggetti con un atteggiamento psicologico di chiusura e introversione, a dimostrazione del fatto che non si può scindere la psiche dal corpo. Tale atteggiamento influisce anche sulla dinamica respiratoria, limitando durante l’inspirazione forzata la piena apertura del torace.
Il persistere di una curva anomala del rachide nella regione del dorso provoca con il tempo adattamenti muscolari secondo la legge di Borelli e Weber Fick:
“La lunghezza delle fibre è proporzionale all’accorciamento ottenuto dalla loro contrazione e questo è circa uguale alla metà della lunghezza delle fibre”.
Nel caso di un’ipercifosi dorsale si ha col tempo un allungamento della muscolatura dorsale e un accorciamento di quella pettorale. Tali adattamenti muscolari a lungo andare determinano un progressivo e conseguente irrigidimento dei legamenti e una deformazione a cuneo dei corpi vertebrali. Citando la legge di Delpech: “dove l’azione del carico è maggiore, l’accrescimento della vertebra subisce un rallentamento; dove invece è minore il carico, è più rapido l’accrescimento.” Una leggera pressione sul corpo vertebrale stimola la crescita, una pressione di poco più elevata non da variazioni, una molto elevata ne inibisce la crescita. Una vertebra sottoposta a forti pressioni tende ad assumere la forma di un cuneo e più vertebre a cuneo danno luogo all'insorgere del dismorfismo.
Se il soggetto non reagisce in tempo, il carico preme dunque sulla concavità della curva e la deformazione, a poco a poco, diventa a carattere irreversibile. È necessario quindi provvedere a lavorare in allungamento quei muscoli che realizzano una intrarotazione omerale e a chiudere le spalle in avanti (specie il gran pettorale, il gran dorsale, il sottoscapolare e il gran rotondo) e che possono di conseguenza accentuare la curva ipercifotica. Al contrario sarà necessario potenziare tutti quei muscoli che nell’atteggiamento ipercifotico vivono una sorta di letargo e sono eccessivamente pigri. Sono quelli che realizzano una extrarotazione dell'omero (sottospinato, il piccolo rotondo, il deltoide posteriore ed il trapezio) e il cui accorciamento può diminuire l'ipercifosi o l'atteggiamento ipercifotico.
L’ipercifosi è oggi una delle alterazioni posturali più frequenti. Le abitudini moderne, fra tutte quelle di stare continuamente seduti e flessi in avanti per scrivere al pc, incidono tantissimo sulla tendenza a sviluppare nel tempo il dorso curvo. Come detto, però, tale alterazione colpisce in particolare i più giovani, specie nel periodo della spinta puberale. La specifica applicazione del taping posturale fornisce uno stimolo ad attivare maggiormente i muscoli erettori della colonna, coadiuvando l’azione della ginnastica posturale. Il soggetto prenderà maggiore coscienza della posizione assunta e tenderà spontaneamente all’autocorrezione. Per l’applicazione posizioniamo il soggetto in piedi e ci mettiamo alle sue spalle. Prepareremo due bande a “Y” prendendo la misura dal termine della cifosi dorsale fino al passaggio cervico-dorsale. Taglieremo il nastro considerando la tensione da applicare, fra il 70%-80%. Applicheremo le due ancore distali, con lunghezza di circa 5 cm, ai lati dei processi spinosi della colonna, sul passaggio dorso-lombare. Procederemo applicando con tensione le 4 code in direzione craniale e termineremo il bendaggio con gli ancoraggi di circa 3 cm, a tensione 0%, sul passaggio cervico-dorsale.
Dalla posizione prona con la fronte in appoggio sul tappetino, braccia lungo i fianchi con palmi delle mani rivolti verso il pavimento, gambe distese e in appoggio, sollevare il torace fino all’altezza dello sterno, le spalle extrarotano e i palmi delle mani guardano in fuori. Mantenere la posizione per 3 respirazioni per poi tornare lentamente alla posizione inziale. Ripetere il movimento intero per 5 volte. Un esercizio che se ben eseguito risulta particolarmente utile nei casi di ipercifosi dorsale. Il lavoro andrà focalizzato a livello delle scapole e non nel tratto lombare, in quest’ultimo caso andrà ridotta l’ampiezza del movimento del torace. Un errore abbastanza comune, da evitare, è quello di iperestendere la cervicale che invece dovrà rimanere in asse col tratto dorsale.
Posizioniamo il soggetto seduto e ci mettiamo alle sue spalle. Prepareremo due bende a “Y”, prendendo la misura dall’angolo inferiore della scapola fino all’acromion. Taglieremo il nastro considerando la tensione da applicare, fra il 50%-80%, in base al grado di anteposizione. Posizioneremo le due ancore, quanto più simmetriche, sotto all’angolo inferiore della scapola. Applicheremo le due code della “Y” in direzione della testa omerale e della parte media della spina della scapola. Termineremo l’applicazione con l’ancoraggio di circa 4 cm senza tensione.
Analizziamo adesso nel dettaglio un esercizio che possa coadiuvare l’applicazione del taping posturale.
Dalla posizione seduta con gambe incrociate, le braccia aperte “a croce” e la schiena in appoggio su una superficie liscia, spingendo con l’addome, la cervicale e le braccia alla parete percepiamo un auto-allungamento della colonna che si stira verso l’alto. Manteniamo la posizione per circa 30 secondi con un respiro calmo e regolare e ripetiamo l’esercizio per 3-5 volte. Anche questo esercizio è particolarmente indicato, oltre che per attivare la muscolatura posturale, anche per percepire le differenze di tensione del corpo, risultando particolarmente utile quando presenti asimmetrie come una spalla anteposta.
È una delle condizioni paramorfiche più frequenti durante l’età puberale e la prima adolescenza. Le scapole del soggetto appariranno non perfettamente aderenti alla parete toracica, anzi, si presenteranno leggermente sollevate e orientate verso l'esterno. Raramente si riscontrano casi di monolateralità dell’affezione. Il periodo di maggiore incidenza è appunto quello della spinta puberale coincidente con la seconda fase di proceritas. Questo è un periodo particolarmente delicato da un punto di vista posturale, poiché l’accelerata crescita scheletrica non è sempre accompagnata da un eguale crescita muscolare. In particolare, l’ipotonia della muscolatura del dorso, specie degli adduttori delle scapole (trapezio e romboidi), determina l’alterazione in cui le scapole appaiono particolarmente sporgenti. L’intervento di ginnastica posturale dovrà portare progressivamente il soggetto alla presa di coscienza dell’alterazione e al rafforzamento della muscolatura debole.
Posizioniamo il soggetto seduto e ci mettiamo alle sue spalle, chiedendo un’adduzione delle scapole. Prepareremo una banda a “doppia Y” prendendo la misura dai margini esterni di entrambe le scapole. Taglieremo il nastro considerando la tensione da applicare, fra il 70%-80%. Taglieremo il tape da entrambi i lati fino a 2 cm dalla metà, l’ancora centrale sarà così di circa 4 cm. Applichiamo l’ancora centrale, senza tensione, fra la parte intermedia delle due scapole. Applichiamo ciascuna coda avvolgendo la scapola sopra e sotto, da un lato e dall’altro. Terminiamo con i quattro ancoraggi, senza tensione, sulle parti esterne delle scapole. Questo bendaggio favorisce l’azione degli adduttori delle scapole, specie dei romboidi, agevolando inoltre il lavoro dei muscoli in situazioni di spalle anteposte.
Analizziamo adesso nel dettaglio un esercizio che possa coadiuvare l’applicazione del taping posturale.
Dalla posizione supina con braccia a candeliere, gambe piegate e piante dei piedi in appoggio, inspirare e portare in anteroversione il bacino facendo perno sul dorso come appoggio, stringere le scapole e abbassare leggermente le braccia, mantenere questa posizione per 3 respirazioni e lentamente tornare alla posizione iniziale. Ripetere l’esecuzione completa per 5 volte. Un esercizio che va a rinforzare la muscolatura del dorso e gli adduttori delle scapole. Per soggetti particolarmente iperlordotici il movimento va focalizzato a livello del dorso riducendo l’apertura del tratto lombare nell’anteroversione del bacino.
Le abitudini moderne ci portano spesso ad utilizzare molto più un arto, quello dominante, rispetto al controlaterale. Pensiamo soltanto al tempo in cui, giornalmente, ci troviamo a muovere il mouse davanti al pc o a scrivere con il cellulare. Queste attività, pur non richiedendo un grande impegno muscolare, creano nel tempo delle differenze di tono nei muscoli, specie in quelli della spalla. L’asimmetria delle spalle è, infatti, una condizione molto frequente, determinata, il più delle volte, da abitudini motorie o atteggiamenti viziati. Questi causano un aumentato tono della parte discendente del muscolo trapezio, con la spalla che conseguentemente apparirà un po’ più alta.
Per l’applicazione, posizioniamo il soggetto seduto e mettiamoci alle sue spalle. Prepareremo una striscia di taping a banda intera, con lunghezza da sotto l’acromion fino all’inserzione del trapezio sulla linea nucale superiore, finché i capelli ce lo consentono. Per effettuare questa applicazione decompressiva è necessario fare inclinare la testa lateralmente dal lato opposto al trapezio da bendare, portandolo così in allungamento. Applicheremo la prima ancora inferiormente all’acromion e sempre a tensione 0% applicheremo il nastro su tutto il decorso del trapezio discendente, terminando a livello della linea nucale superiore. Prepariamo una benda ad “Y”, con misura dall’angolo inferiore della scapola all’acromion. Taglieremo il nastro considerando la tensione da applicare, fra il 50%-80%, in base al grado di elevazione. Applichiamo la prima ancora sull’angolo inferiore della scapola, chiediamo al soggetto di abbassare leggermente la spalla e portiamo le due code della benda in direzione della testa omerale e sulla parte mediale della spina della scapola, applicando la tensione voluta. Terminiamo l’applicazione con gli ancoraggi di circa 3 cm.
Analizziamo adesso nel dettaglio un esercizio che possa coadiuvare l’applicazione del taping posturale.
Dalla posizione supina con braccia lungo i fianchi, gambe piegate e piedi in appoggio, lentamente inclinare la cervicale da un lato ed abbassare la spalla dal lato opposto. Mantenere questa posizione per 3 respirazioni per poi tornare al centro e ripetere dal lato opposto. Eseguire 5 ripetizioni per lato. Molto spesso, per le abitudini moderne, spalle e cervicale sono fin troppo legate e contratte nei movimenti. Questo esercizio di dissociazione serve a decontrarle e a ridare nuovamente mobilità.
Per lungo tempo la scoliosi è stata individuata come una deviazione geometrica della colonna evidenziabile sul piano frontale in associazione ad una rotazione vertebrale. Trattasi in realtà di una definizione superficiale e per certi versi fuorviante. La scoliosi è in realtà una “complessa deformità strutturale della colonna vertebrale che si torce nei tre piani dello spazio; sul piano frontale si manifesta con un movimento di flessione laterale, sul piano sagittale con una alterazione delle curve (spesso provocando una inversione), sul piano assiale con un movimento di rotazione”. La rotazione delle vertebre determina il cosiddetto gibbo, visibile nella flessione anteriore del busto del soggetto (Test di Adams) che si accompagna ad una deformazione dei dischi intervertebrali e a retrazioni muscolo legamentose.
Se non vi è rotazione dei corpi vertebrali si è in presenza di un paramorfismo e quindi di un atteggiamento posturale scoliotico, correggibile con un semplice sforzo volontario. La deviazione è in questo caso visibile solo in alcune posizioni: generalmente quando si è in piedi. Cambiando posizione le vertebre si riallineano e la deformità non è più evidente. L’atteggiamento scoliotico può accompagnarsi a dismetrie degli arti inferiori, oppure a lussazioni dell’anca, può essere conseguente a traumi, dolore vertebrale o muscolare o, più frequentemente, determinato da alterazioni posturali o ipotonicità di un emilato della muscolatura del tronco. Nelle scoliosi il sesso femminile è maggiormente colpito nel rapporto di circa 5:1 rispetto a quello maschile. In base all’età di comparsa le scoliosi si distinguono in: infantile, giovanile, dell’adolescenza.
È bene sapere che la scoliosi è una patologia evolutiva, tanto prima si manifesta tanto più ha la possibilità di aggravarsi. La sua evoluzione è massima durante i periodi di forte accrescimento (11-15 anni nelle ragazze e 13-17 anni nei ragazzi). Le scoliosi sono idiopatiche (ad eziologia sconosciuta) nel 70-80% dei casi, dove insorgono senza una causa apparente; il rimanente 20-30% è rappresentato dalle scoliosi congenite o acquisite (per esempio in seguito ad un trauma, infezioni, tumori o artrite). Per mantenere l'asse di gravita del tronco e la verticalità del capo, con l’orizzontalità dello sguardo e dell’udito, il rachide cerca di adattarsi alla curva scoliotica, per “economizzare” il sistema. Alla curva principale si aggiungono pertanto curve secondarie o di compenso. La prima si distingue dalle seconde perché è più grave, più fissa, più difficile da correggere. A seconda della localizzazione della curva scoliotica principale, la scoliosi può essere definita cervico-dorsale, dorsale, dorso-lombare, lombare. A seconda che la convessità della curva principale sia rivolta verso destra o verso sinistra, la scoliosi viene definita rispettivamente destro-convessa e sinistro-convessa. Le curve dorsali sono più spesso destro-convesse, le curve cervico-dorsali e le lombari sono più spesso sinistro-convesse. Oltre alla comparsa del gibbo ulteriori elementi osservabili all’analisi posturale sono:
La valutazione radiografica è essenziale per individuare il livello di curvatura della scoliosi. La misurazione della deviazione scoliotica viene espressa in gradi (angolo di Cobb). Quest'angolo si ottiene tracciando due rette tangenti rispettivamente alle limitanti della prima ed ultima vertebra colpite da scoliosi; le due perpendicolari a queste rette si intersecano formando un angolo che indica l'entità in gradi della deviazione scoliotica. Una scoliosi inferiore ai 15°-20° può essere considerata come lieve, un’altra compresa tra i 20°-40° è invece una deformità più importante che richiede un trattamento incruento con l'utilizzo di un busto contemporaneamente allo svolgimento di attività fisica. Le scoliosi che non superano i 40° in età adulta difficilmente tendono ad evolvere. L’intervento chirurgico, per evitare complicanze respiratorie o neurologiche, si effettua nelle scoliosi con angolo superiore ai 40°. Queste possono peggiorare anche in età adulta fino ad 1° per anno.
L’attività fisica svolge comunque un ruolo essenziale in tutte le tipologie di scoliosi. Seppur non permetta di correggere direttamente l’alterazione scheletrica dismorfica, è pur sempre necessaria per prevenire un peggioramento, agendo sulla tonificazione generale ma soprattutto sulla presa di coscienza corporea per favorire il recupero della simmetria. Allo stesso tempo esercizi di respirazione attiva, di equilibrio e propriocettivi sono ugualmente essenziali per prevenire alterazioni e conseguenze negative che si accompagnano alla scoliosi. Per quanto riguarda gli "effetti curativi" o presunti tali del nuoto su scoliosi, dorso curvo, mal di schiena ecc., una recente ricerca da parte dell'Isico (Istituto scientifico italiano colonna vertebrale) ha chiarito questo aspetto. La ricerca si chiama appunto: "Swimming is not a scoliosis treatment: a controlled cross-sectional survey", ovvero "il nuoto non è una terapia della scoliosi". Ha confrontato 112 nuotatori agonisti con 217 studenti di pari età. Il risultato a dir poco sorprendente è stato che i praticanti presentavano delle asimmetrie del tronco più accentuate ed erano ipercifotici, con una frequenza maggiore di dorsi curvi e mal di schiena.
Uno studio realizzato da Geyer e Vercauteren ci dice inoltre che nelle scoliosi con gibbo dorsale superiore ai 10 mm, le forze applicate al torace, come nel nuoto, agiscono in senso auto-deformante. Per combattere la scoliosi occorre pertanto scegliere sport di carico che non prevedano mobilizzazioni eccessive della colonna vertebrale, come nella danza o ginnastica artistica. In ginnastica posturale è bene preferire quegli esercizi che portino progressivamente a maggior coscienza corporea e all’autocorrezione del soggetto anche nello svolgimento delle attività quotidiane. Il paziente dovrà eseguire l’autocorrezione attivamente, senza aiuti esterni e dovrà riuscire a mantenerla anche in situazioni “distraenti” e sempre più complesse. Questo permette di superare il concetto di “ginnastica correttiva” ed orientare alla realizzazione di una vera e propria “rieducazione neuromotoria” mirata al rinforzo e al controllo della stabilità vertebrale. Per fare questo l’intervento deve essere fortemente individualizzato. Non per ultimo, è importante tenere presente che la deformazione scoliotica non si limita alla sola colonna vertebrale, ma investe il corpo nella sua globalità, compresi i più importanti recettori posturali (occhio, orecchio, piede, propriocettori muscolari, ecc.). Nella rieducazione è bene quindi non focalizzarsi esclusivamente nel cercare di correggere meccanicamente la curva, ma lavorare complessivamente sulla postura del soggetto.
L’obiettivo di questa applicazione è quello di decomprimere la muscolatura dal lato della concavità della curva principale della scoliosi e stabilizzare quella dal lato della convessità. Come per gli altri, questo bendaggio ha la sua massima applicabilità ed efficacia durante l’età evolutiva, dove oltre a poter influenzare la struttura, la presa di coscienza dell’alterazione porta il soggetto ad un’autocorrezione spontanea. Prepariamo due bande intere lunghe quanto la curva principale della scoliosi. Chiediamo un’inclinazione dal lato della convessità ed applichiamo il primo nastro, a tensione 0%, sulla muscolatura paravertebrale della concavità, lateralmente ai processi spinosi. Per l’applicazione della seconda benda cerchiamo, per quanto possibile, una parziale rettilineizzazione della curva e applichiamo la prima ancora a livello della vertebra terminale superiore, senza tensione. Applichiamo tensione, circa 80%, in direzione caudale per tutta la curva e terminiamo con un ancoraggio a livello della vertebra terminale inferiore.
Analizziamo adesso nel dettaglio un esercizio che possa coadiuvare l’applicazione del taping posturale.
Dalla posizione seduta con gambe incrociate, mani giunte sopra la testa e la schiena in appoggio su una superficie liscia, spingendo con l’addome, la cervicale e i gomiti alla parete, percepiamo un rettilineizzazione della colonna che si stira verso l’alto. Manteniamo questa posizione per 30 secondi con un respiro calmo e regolare. Ripetere l’esercizio per 3-5 volte. L’operatore chiederà al soggetto di percepire le differenze di contatto e tensione fra lato destro e sinistro del corpo e fra le curve della colonna. Un esercizio che, se ben eseguito, risulta essere fra i più indicati e completi per attivare la muscolatura posturale.
Molto spesso le principali alterazioni podaliche, piede piatto e piede cavo, possono accompagnarsi alla fascite plantare. Per tale si intende un’infiammazione del cordone fibroso che unisce il calcagno alla base delle dita. La fascia plantare ha un ruolo essenziale nella trasmissione delle forze del tricipite surale alle dita e la sua visco-elasticità permette di restituire una grande quantità di energia ad ogni falcata o ad ogni salto. Si può manifestare a livello del calcagno, e viene in questo caso denominata fascite plantare prossimale, oppure a livello del mesopiede, in questo secondo caso viene denominata fascite plantare distale. Si riscontra anche in molte categorie di sportivi, come in chi pratica running, calcio, atletica, danza, in generale in tutti quegli sport in cui il piede è sottoposto a forti impatti. Il dolore è acuto, si esacerba con il movimento e di tipo “migratorio”: a volte compare al centro del tallone, in alcuni casi si insinua al centro della pianta del piede irradiandosi fino alle dita, in altri ancora risale sulla parte posteriore della gamba. Il taping può essere un ottimo coadiuvante per dare supporto all’arco plantare e alleviare la sintomatologia della fascite. Preparare un nastro “a ventaglio” prendendo la lunghezza dal calcagno fino alla base delle dita. Applicare l’ancora sul calcagno e, ad una ad una, le code fino alla base delle dita a tensione 0%. Preparare un secondo nastro con lunghezza tale in modo da ricoprire trasversalmente la volta plantare. Applicare l’ancora senza tensione sull’arco esterno del piede, per poi effettuare una moderata tensione e completare l’applicazione con l’altra ancora sul collo del piede.
Per il trattamento rieducativo è utile camminare su un piano inclinato, stirando cosi i muscoli e l’aponeurosi plantare se il soggetto sale e scende all’indietro. Si ottiene lo stesso effetto se si spinge con forza l’avampiede sullo spigolo di un gradino o se si tira con le mani un asciugamano o un elastico teso sulla punta del piede.
Un’applicazione particolarmente utile in quei soggetti che presentano un’eccessiva contrattura-rigidità della muscolatura posteriore della gamba. L’eccessiva contrattura muscolare limita infatti la circolazione sanguigna e linfatica, creando un ristagno di liquidi. Per l’applicazione posizioniamo il soggetto in decubito prono con il piede in flessione dorsale. Prepariamo due diversi nastri con la tecnica del taglio “a ventaglio”, prenderemo la misura da sopra il cavo popliteo fino a sotto i malleoli. Applichiamo le due ancore sopra al cavo popliteo, rispettivamente in proiezione del condilo femorale mediale e laterale. A tensione 0% applicheremo il primo nastro fino alla zona sottostante il malleolo mediale, il secondo fino alla zona sottostante il malleolo esterno. L’applicazione può essere riadattata per la muscolatura anteriore, mantenendo le stesse ancore ma cambiando le traiettorie.
I problemi alla cervicale sono fra i più comuni al giorno d’oggi, quelli che generalmente portano ad un uso spropositato di farmaci. L’applicazione decompressiva del taping, insieme a semplici esercizi di mobilizzazione articolare, permetteranno di ottenere un sollievo notevole. Per l’applicazione posizioniamo il soggetto seduto e ci mettiamo alle sue spalle. Chiediamo di flettere la testa in avanti e prepariamo due bande a “ventaglio”, con lunghezza dalla parte media della scapola fino al tratto cervicale, finché i capelli consentono l’applicazione. Applichiamo le due ancore in maniera speculare e procediamo con l’applicazione delle code ad incrocio, prima da un lato e poi dall’altro, sempre a tensione 0%. Il risultato finale sarà una sorta di rombo in prossimità dell’incrocio delle due bande.
Analizziamo adesso nel dettaglio gli esercizi che possano coadiuvare l’applicazione del taping posturale.
Dalla posizione eretta con schiena dritta, gambe appena divaricate, braccia lungo i fianchi, effettuare lentamente delle flesso-estensioni del collo, cercando di mantenere le spalle ferme. Andremo così a mobilizzare la muscolatura e le vertebre cervicali, spesso eccessivamente legate nei movimenti alle spalle. Ripetere il movimento di flesso-estensione per 5 volte.
Dalla posizione eretta effettuare lentamente delle rotazioni della testa verso destra, poi lentamente tornare al centro e ruotare verso sinistra. Anche in questo caso bisogna cercare di mantenere le spalle ferme. Ripetere l’esercizio per 5 ripetizioni.
Dalla posizione eretta, effettuare lentamente delle inclinazioni laterali del collo: andando da un lato, poi passando dal centro per poi inclinarlo dal lato opposto. Mantenere le spalle ferme, mobilizzando solo il tratto cervicale. Eseguire il movimento 5 volte per lato.
Questo articolo è tratto dal libro A scuola di Posturale, pratico manuale di oltre 500 pagine interamente dedicato alla Ginnastica Posturale.
Il piede piatto è un'alterazione posturale in cui l'arco plantare mediale risulta abbassato, con conseguente appoggio di gran parte della pianta del piede a terra. Si manifesta con affaticamento, dolore ai piedi e alle gambe, e può portare a problemi posturali come valgismo del retropiede e ginocchio valgo.
L'alluce valgo è una deformità del piede caratterizzata dalla deviazione dell'alluce verso le altre dita. Le cause possono essere predisposizione familiare, lassità legamentosa, piede piatto, scarpe strette e con tacco alto, e fattori ormonali.
L'atteggiamento ipercifotico si manifesta con un'accentuazione della curvatura dorsale della colonna vertebrale, portando ad una postura con spalle anteposte e dorso curvo. Può essere causato da posture scorrette, sedentarietà, debolezza muscolare o fattori psicologici.
La scoliosi è una complessa deformità tridimensionale della colonna vertebrale, caratterizzata da una curvatura laterale, rotazione vertebrale e alterazione delle curve fisiologiche. Si valuta con l'esame obiettivo, il Test di Adams per evidenziare il gibbo e la radiografia per misurare l'angolo di Cobb.
Il taping neuromuscolare può essere utilizzato come supporto nel trattamento delle alterazioni posturali. Fornisce un sostegno muscolare, favorisce la propriocezione e aiuta a correggere la postura. Nell'articolo vengono descritte diverse applicazioni del taping per piede piatto, alluce valgo, ginocchio valgo, ipercifosi dorsale e scapole alate.