Quando si parla di diete finalizzate al dimagrimento, l'associazione con cibi come la frutta è naturale. Allo stesso modo nel corso degli anni si è fatta strada l'idea che, sostituire il comune zucchero da tavola (il saccarosio) con il fruttosio, potesse permettere numerosi vantaggi sfruttandone qualità come il basso indice glicemico.
Controllare l'indice glicemico significa infatti indurre un rilascio di insulina molto meno marcato, evento tecnicamente positivo essendo l'insulina un ormone deputato (tra l'altro) al controllo degli zuccheri circolanti e favorendone il loro stoccaggio anche sottoforma di adipe, oltre ad avere un effetto inibente riguardo la lipolisi, ossia il processo inverso tramite cui i grassi possono essere usati dal corpo a scopo energetico (inducendo il dimagrimento). Volendo semplificare è lecito dire che un minore indice glicemico determina minore insulina, minore propensione a ingrassare e maggiore probabilità di utilizzare grassi di accumulo.
Non a caso molte diete si basano proprio sul controllo della risposta insulinica degli alimenti. A questo vantaggio del fruttosio si associano ulteriori punti a favore, ad esempio nel caso di soggetti diabetici. Tuttavia malgrado queste apparenti e incontrovertibili virtù, il fruttosio presenta diversi punti critici che dovrebbero far riconsiderare il suo utilizzo.
Anzitutto occorre segnalare che il fruttosio appartiene al gruppo degli zuccheri semplici, al contrario ad esempio dell'amido (riccamente presente nelle patate, nei cereali ecc.) che è uno carboidrato complesso. Appartengono agli zuccheri semplici sia i monosaccaridi che i disaccaridi, mentre rappresentano carboidrati complessi i polisaccaridi.
I monosaccaridi sono zuccheri composti da una singola molecola (monomero) costituita da atomi di carbonio, idrogeno e ossigeno. I monomeri possono combinarsi ricorsivamente tra loro, quindi si possono avere zuccheri composti da 2 molecole, ossia i disaccaridi, o da catene più lunghe come nel caso dei polisaccaridi.
Una prima classificazione degli zuccheri consente pertanto di distinguerli in monosaccaridi, disaccaridi (entrambi detti zuccheri semplici) e polisaccaridi (ossia carboidrati complessi).
Appartengono ai monosaccaridi il fruttosio, il galattosio e il glucosio; appartengono ai disaccaridi il saccarosio (fruttosio + glucosio), il lattosio (galattosio + glucosio) e il maltosio (glucosio + glucosio); appartengono ai polisaccaridi gli amidi, la cellulosa e il glicogeno.
Parlando di carboidrati in linea generale è comune riferirsi anche agli oligosaccaridi. Gli oligosaccaridi non sono altro che zuccheri composti da un numero esiguo di monosaccaridi (massimo 10, alcuni autori indicano 20). Pertanto anche i disaccaridi sopra citati fanno parte degli oligosaccaridi, famiglia cui appartengono anche i trisaccaridi come ad esempio il raffinosio (fruttosio + glucosio + galattosio).
Infine, con riferimento ai polisaccaridi, anche in questo caso è possibile fare una distinzione tra quelli le cui lunghe catene di monosaccaridi che li compongono sono una ripetizione del medesimo monosaccaride: gli omopolisaccaridi (es.: il glicogeno formato da lunghe catene di glucosio); e i polisaccaridi rappresentati da lunghe catene di monosaccaridi differenti: gli eteropolisaccaridi (es.: glicosaminoglicani).
Queste principali classificazioni sono schematicamente riportate nella tabella che segue:
Carboidrati | |||||||
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Semplici | Complessi | ||||||
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Con l'alimentazione vengono ingeriti mix più o meno complessi dei vari possibili tipi di carboidrati sopra elencati. Attraverso il processo digestivo si avvia la prima tappa del loro metabolismo che ha il compito fondamentale di ridurre polisaccaridi e oligosaccaridi in monosaccaridi (quindi fruttosio, glucosio e galattosio) affinché possano essere assorbiti a livello intestinale (intestino tenue) e successivamente utilizzati o immagazzinati.
Il processo digestivo dei carboidrati si avvia già con la masticazione ad opera di un enzima presente nella saliva, la ptialina, che inizia a ridurre le catene polisaccaridiche degli amidi, e si conclude a livello intestinale dove avviene anche l'assorbimento attraverso gli enterociti dei villi. L'introduzione di monosaccaridi non richiede alcun processo digestivo, vengono assorbiti senza alcuna necessaria modificazione. Dopo l'assorbimento a livello intestinale, i monosaccaridi passano al sangue e vengono trasportati attraverso il torrente ematico sino al fegato.
Il glucosio è certamente il più importante monosaccaride, è costantemente reperibile nel circolo ematico in concentrazioni medie di 60-100mg per 100 ml di sangue, questa concentrazione è definita glicemia e può subire delle fluttuazioni connesse proprio con l'alimentazione. Tuttavia è fondamentale che la glicemia resti costantemente all'interno di questi valori poiché i rischi connessi a ipoglicemia o iperglicemia sono notevoli e potenzialmente molto gravi. Per tale ragione l'intervento ormonale, in particolare di insulina e glucagone, operano per consentire livelli costanti e ottimali di glicogeno nel sangue. Nel dettaglio l'insulina permette di immagazzinare il glucosio in eccesso sottoforma di glicogeno (o eventualmente di grasso) ed è l'unico ormone deputato a gestire gli eccessi di glucosio mentre, il glucagone in modo principale, ma anche altri ormoni come adrenalina, tiroxina, GH, cortisolo, ACTH, possono favorire l'incremento di glucosio favorendo il rilascio cellulare o mediante altri processi (es.: gluconeogenesi).
In ogni caso tutto il glicogeno assunto ovvero assorbito transita dal fegato dove, in virtù delle diverse esigenze dell'organismo, può andare incontro a destini differenti: dall'impiego energetico sino allo stoccaggio o trasformazione (ad esempio in aminoacidi, ribosio o desossiribosio).
Qualsiasi via metabolica intenda intraprendere il glucosio, sia essa l'utilizzo energetico o lo stoccaggio sottoforma di glicogeno, dovrà preventivamente essere convertito in glucosio-6-fosfato, una sorta di processo di attivazione del glucosio che può avvenire sia a livello epatico che a livello muscolare, dove il glucosio è peraltro abbondantemente utilizzato a scopo energetico. Tuttavia solo nel fegato il glucosio-6-fosfato (forma attivata) può essere convertito in senso inverso e tornare glucosio, pertanto nel fegato non solo è possibile procedere dal glucosio al glucosio-6-fosfato e quindi al glicogeno (abbassando la glicemia), ma è possibile procedere in senso inverso per rilasciare glucosio nel sangue (innalzando la glicemia). Nel muscolo non è possibile convertire il glucosio-6-fosfato nuovamente in glucosio, quindi l'utilizzo delle scorte di glicogeno muscolare sono finalizzate esclusivamente alle richieste energetiche della cellula muscolare. Del resto una delle principali funzioni dei glucidi è proprio di tipo energetico, sebbene possano divenire costituenti delle strutture cellulari, di lipidi complessi ecc.
Il deposito naturale del glucosio è il fegato e i muscoli (anche sottoforma di glicogeno), altri eccessi energetici di natura glucidica vengono stoccati sottoforma di grasso negli adipociti.
Il metabolismo del fruttosio procede in modo differente a seconda che avvenga nel muscolo o nel fegato.
Nel muscolo subisce una fosforilazione che lo porta a fruttosio-6-fosfato ad opera dell'enzima esochinasi, il fruttosio-6-fosfato rientra in una delle prime tappe della glicolisi che caratterizza anche l'impiego del glucosio. Partendo dal glucosio infatti, immediatamente dopo la sua fosforilazione a glucosio-6-fosfato si passa a una riorganizzazione che lo converte a fruttosio-6-fosfato e quindi permette il suo agevole impiego a scopo energetico (analogo per glucosio e fruttosio dalla tappa in cui divengono fruttosio-6-fosfato in avanti).
Tuttavia mentre il glucosio a livello muscolare è acquisito tramite trasportatore specifico: il GLUT-4 che è attivato dall'insulina e contribuisce tra l'altro a incrementare i livelli di glicogeno muscolare, l'ingresso del fruttosio viene gestito prevalentemente dal fegato e mediato dal trasportatore GLUT-5 non insulino dipendente.
Pertanto la maggior parte del fruttosio introdotto non viene metabolizzato nel muscolo ma nel fegato, dove l'enzima esochinasi prima citato non è presente, non è quindi possibile fosforilare il fruttosio in fruttosio-6-fosfato. A incaricarsi della sua fosforilazione è un enzima differente: la fruttochinasi, che procede però a produrre fruttosio-1-fosfato che non può essere nuovamente fosforilato dalla fosfofruttochinasi a fruttosio-1,6 -bisfosfato al fine di usarlo energeticamente mediante la glicolisi. Impiego energetico che implicherebbe anzitutto una reale necessità di utilizzo, e secondariamente l'attivazione di una serie di tappe ulteriori e successive che lo consentirebbero.
Riepilogando brevemente, la gran parte del fruttosio introdotto è gestito dal fegato, in questa sede il fruttosio viene fosforilato dall'enzima fosfofruttochinasi a fruttosio-1-fosfato. Da questo punto in avanti può procedere in varie direzioni in ogni caso la fosfofruttochinasi proseguirà il processo di fosforilazione fin tanto vi è fruttosio disponibile determinando un accumulo di fruttosio-1-fosfato che sarà destinato alla sintesi di acidi grassi (trigliceridi).
La legittima domanda è connessa al perché non avvenga una conversione in glicogeno piuttosto che in acidi grassi. Volendo semplificare, la ragione è connessa al processo di fosforilazione del fruttosio che, come più volte ribadito sin qui, procede ininterrotta ad opera della fosfofruttochinasi in modo estremamente più rapido rispetto all'impiego glicolitico del fruttosio medesimo. Si crea quindi un accumulo di AMP (per deplezione di ATP) man mano che il fruttosio viene fosforilato, che impedisce la gluconeogenesi e obbliga alla sintesi di acidi grassi. Destino differente potrebbe avere nei casi in cui i livelli di glicogeno epatico risultassero a vario titolo compromessi (es.: a causa di un prolungato digiuno). In questo caso il fruttosio prenderebbe la via gluconeogenica e quindi sarebbe stoccato sottoforma di glicogeno.
L'eccessivo e frequente uso di fruttosio, soprattutto in soggetti con adeguati livelli di glicogeno epatico, crea le basi potenziali per una serie di gravose conseguenze come la sindrome metabolica, iperuricemia, aterosclerosi, scompenso nell'assetto lipidico, ecc.
Infine la contestuale presenza di quote di fruttosio e glucosio, in soggetti con scorte di glicogeno non compromesse, aggrava anche al gestione del glucosio stesso. Quest'ultimo infatti possiede un enzima specifico, la glucocinasi, che viene attivata solo per concentrazioni relativamente elevate di glucosio e procede con la sua fosforilazione a glucosio-6-fosfato. In presenza di fruttosio la glucocinasi è attiva anche per quote basse di glucosio procedendo con la sua attività metabolica che rende disponibili maggiori quote di Acetil CoA inducendo poi alla lipogenesi.
L'eccessivo introito di fruttosio ha una serie di ripercussioni potenzialmente negative, quando il fegato non è più in grado di metabolizzarlo a glucosio (ossia quando le scorte epatiche di glicogeno non sono compromesse) viene trasformato in trigliceridi, favorendo la condizione tutt'altro che positiva di trigliceridemia, elemento di forte rischio per le patologie cardiovascolari. Assunzioni importanti e prolungate di fruttosio possono condurre a steatosi epatica connessa proprio con un accumulo di trigliceridi negli epatociti che può portare a necrosi cellulare, insorgenza della gotta per accumulo di acidi urici, effetti connessi con l'ossidazione delle strutture lipidiche che può condurre a gravi patologie degenerative.
Fatte tutte queste precisazioni occorre in ogni caso giungere a delle conclusioni che non rischino di creare ingiustificato allarmismo né acritica esaltazione del fruttosio. In un quadro isocalorico, dove semplicemente avviene una parziale sostituzione del saccarosio con del fruttosio, e all'interno di una alimentazione bilanciata sotto il profilo glucidico, è fuorviante parlare di incremento dei rischi, e probabilmente invece i benefici risultano essere di misura maggiore. Benefici che si consolidano ulteriormente se, piuttosto che una condizione isocalorica, si ricerca un "equilibrio dolcificante". Essendo infatti il fruttosio più dolce del saccarosio, una sostituzione finalizzata a mantenere invariato il personale gusto per ciò che è dolce consente di utilizzare un quantitativo di fruttosio che può essere fino a 4 volte inferiore, apportando vantaggi ulteriori anche sotto l'apporto calorico giornaliero.
Differente il discorso spesso connesso anche con i cibi light, secondo cui avendo meno calorie, o avendo una percezione di maggiore salubrità, si è tentati di assumerne in misura aumentata. Questo atteggiamento proiettato sul fruttosio, se dovesse indurre ad un uso quantitativamente maggiore, inevitabilmente creerebbe un incremento esponenziale dei rischi piuttosto che dei vantaggi. Seguendo un ulteriore elemento non meno marginale, ossia una minore interferenza da parte del fruttosio con insulina e leptina, la sua assunzione compromette più facilmente il senso della sazietà spingendo a sovralimentarsi. Anche questo fattore appare in comune con i cibi light che, sia sotto il profilo fisiologico ma anche psicologico (prodotto meno gustoso e appagante, ipotesi di una irrisoria quota calorica) induce all'abuso con conseguente incremento esponenziale dei rischi piuttosto che dei vantaggi.
Analoghe ripercussioni riguardano la frutta o dolcificanti naturali come il miele che contengono alte dosi di fruttosio ma che vengono percepiti appunto come "naturali" e quindi salutari al punto da poterne consumare liberamente. Superando la linea di equilibrio, come per ciascuna cosa, vi è una repentina inversione dei costi/benefici. Pertanto se il regolare consumo di frutta è corretto e auspicabile, un accesso smodato soprattutto a varietà particolarmente zuccherine non solo espone a situazioni di potenziale rischio, ma compromette banalmente parte delle intenzioni dimagranti di chi si rapporta a questo modello alimentare. Inoltre sostituire i prodotti amidacei (es. cereali) con la sola introduzione della frutta non è equiparabile né fisiologico, e nel lungo periodo determina ripercussioni a livello metabolico.
A incidere sugli effetti del fruttosio non sono soltanto le dosi, ma anche il momento in cui viene assunto. Farlo dopo un digiuno (ad esempio usarlo per dolcificare il caffè del mattino) può essere una ottima idea per prevenire picchi insulinici. Dopo un digiuno prolungato inoltre, le scorte glucidiche del fegato sono basse, e vi saranno ben pochi problemi a utilizzare il fruttosio per ricostituirle parzialmente. È chiaro che il tutto dipende anche da quali e quanti altri alimenti contenenti carboidrati accompagnano il caffè di cui sopra. Secondo lo stesso principio potrebbe essere assunto senza problemi dopo l'attività fisica, quando le scorte glucidiche sono nuovamente basse, tuttavia questo è da valutare in considerazione con l'eventuale necessità di ripristinare in modo più drastico e rapido il glicogeno epatico1 (in ogni caso scarsamente compromesso rispetto a quello muscolare), ma anche all'utilità di una risposta insulinica nel post workout che possa tra l'altro inibire il fisiologico processo catabolico. In ultimo, ma non per importanza, l'impiego di zuccheri semplici a elevato indice glicemico, garantisce un ottimale reintegro del glicogeno muscolare, molto più compromesso di quello epatico dopo un allenamento, e ripristinabile con glucosio e non con fruttosio (ribadendo quanto già esposto rispetto ai recettori GLUT 4 per il glucosio presenti a livello muscolare).
Pertanto, lungi da affermazioni ferree e uguali per tutti, gli effetti del fruttosio possono variare da una condizione positiva ad una pessima in virtù di numerosi parametri tra i principali: quota assunta, momento della giornata, associazione ad altri alimenti glucidici, attività fisica svolta, obiettivo dell'attività fisica ecc.
L'organismo non è in grado di processare e digerire tutti gli oligosaccaridi cui si è fatto riferimento in precedenza, né possiede amilasi in grado di processare polisaccaridi come la cellulosa. In questi casi gli oligosaccaridi e i polisaccaridi non digeribili vanno incontro a un processo di fermentazione ad opera del microbiota umano residente nel colon. È il caso ad esempio del verbascosio (galattosio + galattosio + glucosio + fruttosio) altamente presente nei legumi assieme ad altri oligosaccaridi. Oligosaccaridi e polisaccaridi non digeribili sono i principali responsabili dei gas intestinali prodotti proprio per effetto del processo di fermentazione. Alcuni oligosaccaridi indigeribili ma fermentabili sono un fondamentale supporto alla crescita ottimale dei batteri intestinali (microbiota) che svolgono azioni importanti e fondamentali per la salute dell'uomo, e sono conosciuti come prebiotici. Pertanto il consumo degli alimenti che li contengono è una prassi corretta e fondamentale.
Non solo, se l'obiettivo è quello di un migliore controllo glicemico postprandiale (elemento connesso anche all'uso del fruttosio e al suo minore indice glicemico), occorre considerare che alimentarsi con prodotti come i legumi contenenti oligosaccaridi non digeribili, aiuta a controllare e ridimensionare il picco glicemico e contemporaneamente protrae più a lungo nel tempo la curva glicemica, risultando utile sia nei confronti dell'ipoglicemia che dell'iperglicemia.
L'impiego del fruttosio, come noto e come ribadito, ha influenze assai differenti rispetto all'insulina. Sebbene lo stimolo di tale ormone sia generalmente individuato come problematico, è da considerare che svolge tra l'altro un effetto anoressizzante, induce quindi un maggior senso di sazietà riducendo lo stimolo a mangiare nuovamente. Al contempo il fruttosio è inefficace a ridurre i livelli di grelina, ormone che agisce sull'ipotalamo inducendo il senso di fame e già particolarmente presente in chi segue una dieta ipocalorica. Da uno studio2 condotto mediante l'analisi delle aree cerebrali attivate/disattivate dall'introduzione di glucosio e fruttosio, è stato possibile constatare che il fruttosio non è in grado di disattivare il corpo striato, una regione coinvolta nel gestire il senso di sazietà, al contrario di quanto è invece in grado di fare il glucosio che, inoltre, attiva una risposta coordinata delle aree funzionalmente correlate con l'ipotalamo e con la gestione dell'appagamento e della sazietà significativamente più efficiente del fruttosio.
La glicazione è un processo mediante il quale uno zucchero si lega con una proteina o con un lipide. Si tratta di una reazione non mediata da enzimi, quindi casuale, tanto più frequente quanto maggiore è la concentrazione di zuccheri nell'ambiente in cui si trova la proteina, e il legame che si viene a creare compromette la funzione biologica della proteina stessa. Queste molecole prendono comunemente il nome di AGEs (advanced glycation end products). Nell'organismo le reazioni di glicazione sono necessarie, ma provvedono degli enzimi a realizzarle e quindi secondo una logica funzionale e un processo controllato. La glicazione causata dall'eccesso di zuccheri, e in particolare di fruttosio ma anche il glucosio, non ha nulla a che vedere con tutto questo. In quantità elevate compromettono a vario titolo l'equilibrio corporeo, inducendo stati infiammatori o reazioni di ossidazione, aterosclerosi ecc. Gli AGEs possono essere anche introdotti con l'alimentazione poichè si formano nel corso della cottura degli alimenti, in particolare la carne, i prodotti da forno, i cibi fritti, soprattutto con metodi di cottura come la grigliatura o la frittura; una minore rilevanza hanno nel pesce, nella frutta, nella verdura e nei legumi e con eventuale cottura al forno, al vapore o mediante bollitura.
Tra le varie intolleranze alimentari alcuni soggetti possono presentare quella al fruttosio, si tratta di una malattia genetica rara causata da un deficit dell'enzima aldolasi che interviene sia nella glicolisi che nella gluconeogenesi. Introdurre alimenti che contengono fruttosio, incluso il comune zucchero che ne contiene una parte assieme al glucosio, impedisce il corretto utilizzo del fruttosio che si accumula creando danni soprattutto a livello epatico. La manifestazione dei sintomi avviene già nel periodo neonatale appena si avvia l'introduzione di alimenti differenti dal latte materno. In ogni caso, a prescindere da condizioni di intolleranza, il fruttosio in eccesso nella dieta di giovani e bambini può comportare più agevolmente condizioni di stress metabolico a carico del fegato con gravi ripercussioni3.