La natura, quindi, come voce protagonista della nostalgia, dello sconforto, ma altresì della speranza di ricongiungimento, anche quando questa vien meno come nel caso di Foscolo e della sua Zacinto: "Né più mai toccherò le sacre sponde ove il mio corpo fanciulletto giacque, Zacinto mia, che te specchi nell'onde del greco mar da cui vergine nacque Venere, e fea quell'isole feconde col suo primo sorriso…".Qui il poeta, dall'esilio dello spirito in cui giace, si abbandona ad una spontanea e malinconica rievocazione e in essa si perde affidandosi al ritmo di culla delle onde dai cui flutti spumosi nasce, gia dea Venere, che col suo primo sorriso per l'essere emersa da cotante acque, rende quelle isole dello Jonio, feconde e splendenti; ed in tale rapito trasporto egli accomuna l'impossibilità di ricongiungersi con quelle amate sponde all'impossibilità di ritrovare quel tempo della serena fanciullezza e del riposo compiuto.
Non crediamo che tanta visione possa trarre in inganno. Il mondo irreale e l'illusione fantastica adottati come scopi raggiungibili, almeno nel pensiero, altro non sono che quel meccanismo di difesa che Freud chiama "sublimazione" e che in forza di vigorosi bisogni istintivi appaga l'incapacità propria dell'artista a contentarsi della realtà usuale.
"L'insuccesso nella vita è dunque la condizione preliminare della creazione artistica; non c'è realizzazione artistica senza il sentimento di una perdita o di un'ingiustizia subita, senza la sensazione di essere stato derubato dei beni della vita. L'idea dell'arte come ricompensa di possibilità lasciate sfuggire, di tempo perduto e di felicità perduta può essere effettivamente così forte, che ogni successo nella vita può apparire come la frustrazione di una realizzazione artistica." Come dice Freud "chi è felice non fantastica mai; fantastica solo chi è inappagato", così si esprime Hauser nelle famose teorie dell'arte.
In altre parole, il poeta crea un mondo di appagamenti condivisibili: fa partecipe di sé gli altri, procurando loro la rivincita al male di cui anch'essi nella maggior parte si dolgono. È d'altronde noto e ormai chiaro come tali esperienze specularmene introiettive spesso si accomunino quasi per necessità ad eventi che hanno a che fare con la produzione artistica.
Baudelaire credeva che il genio creativo non consistesse nel potere d'invenzione, nella manualità della parola, bensì nella facoltà di recezione, e l'artista altro non è che uno dèchiffreur di tali sensazioni. Solo coloro che giungono ad un alto grado di spiritualità riusciranno a scoprire immagini, metafore e analogie adeguate alle proprie necessità espositive e a esprimere le proprie visioni.
Chi altri avrebbe, meglio di Neruda, saputo esprimere la propria tristezza e angoscia attraverso l'immagine di una galleria: "sono stato solo come una galleria, da me fuggivano gli uccelli e la notte entrava in me con la sua invasione possente…"; bisogna essere "poeta" per cogliere quell'aspetto, quella immagine alta di una cosa "comune" che agli altri passa senza nulla evocare.
Chi altri, ancora, sarebbe riuscito a vedere in una sella e un manubrio di bicicletta un toro, se non Ricasso?! Tornando a Baudelaire, egli non a caso sognava una fusione completa di tutte le arti, un'espressione totale di sensibilità e bellezza che potesse attivare tutti i sensi in una volta sola: "spesso la musica mi porta via come fa il mare. Sotto una volta di bruma o in un vasto etere metto vela verso la mia pallida stella…sento vibrare in me tutte le passioni d'un vascello che dolora, il vento gagliardo, la tempesta e i suoi moti convulsi sull'immenso abisso mi cullano…".
Così egli in Spleen et idèal descrive la Musica e la capacità ch'essa ha di evocare, trasfondere e avvolgere con altre le nostre astrazioni e i sogni. E accanto ad essa esaltò pure l'infinita, misteriosa e immota menzogne della pittura, regno spirituale del colore, emozione spontanea, seducente, intesa a svelare un mistero nascosto dietro alla sua ovvietà apparente.
La stessa cosa succede con queste letture e con le figure in esse disperse che, dedicate sovente dagli autori a se stessi, realizzano un prodigio immaginario ben raro quale può essere quello di un rivo di specchi bucati in cui facile è perdersi e difficile non ritrovarsi. E poiché quelle cose di altri stanno dentro di noi, la disponibilità invadente al confronto ci proietta all'indietro, invitandoci senza riscatto al tragitto lontano, fino a che, in solitudine, dopo un giro profondo, ritorniamo a un'esistenza mutata.