Se c’è un ambito in cui le lamentele e le storie di insuccesso sembrano una costante, è quello dell’attività fisica, in tutte le sue declinazioni: dal mondo accademico sino alle palestre di periferia.
Ciascun soggetto che vi si trovi a lavorare avrà una critica, una lamentela ma, soprattutto, avrà un ostacolo, un competitor, un cavillo che lo separa da quello che egli reputa debba essere il posto di successo che gli spetta.
Perlomeno, sia ben chiaro, questo è quello che emerge dal “rumore di fondo”.
Perché di storie di assoluto successo ve ne sono tantissime e tutte fra loro differenti.
Ma, in genere, chi ritiene d’essere appagato non contribuisce ad alimentare il “rumore”.
In un momento storico in cui tutti conoscono (e provano a vendere) il segreto per raggiungerlo, questo successo, mi sono chiesto se ve ne fosse uno grazie al quale garantire il fallimento. Perché forse è da lì che nasce il problema.
Sarà utile allo scopo raccontare un interessante esperimento condotto dal Dott. Kleck all’inizio degli anni ’80. Nel corso di questo test venne chiesto ai partecipanti il consenso per applicare una cicatrice finta sul viso, perfettamente realizzata con materiale cosmetico. Questa cicatrice era posizionata sulla guancia destra, tra l'orecchio e l'angolo della bocca, ed era ben visibile.
Ai partecipanti venne fatta vedere la cicatrice in uno specchio per verificarne la credibilità e, successivamente, venne simulata l'applicazione di una crema idratante sulla cicatrice allo scopo di mantenerla "integra". In realtà, all’insaputa del soggetto, con questo espediente la cicatrice veniva rimossa completamente e senza lasciare traccia.
Ciascun partecipante, infine, doveva sedersi di fronte a un interlocutore, del tutto ignaro di quanto successo prima e all’oscuro anche dello scopo preciso dell'esperimento, per discutere di un argomento generico (una semplice strategia per fare amicizia).
Dopo l'interazione, i partecipanti compilavano questionari per valutare il loro interlocutore, e veniva loro richiesto di commentare se ritenevano che il comportamento dell’altra persona fosse stato influenzato dalla cicatrice (in realtà rimossa) o da altre caratteristiche fisiche.
Inutile dire che praticamente tutti attribuivano all’altra persona di aver assunto un atteggiamento di tensione nei loro confronti, con uno sguardo che indugiava in modo imbarazzante sulla loro cicatrice. Cicatrice, ribadiamolo, che però non c’era più!
Da questo esperimento si possono trarre diverse deduzioni riguardo al ruolo della percezione di sé stessi e all'influenza che essa esercita sul proprio atteggiamento e sulla valutazione del comportamento altrui.
In particolare, quanto descritto suggerisce che le persone tendono a proiettare le proprie insicurezze o aspettative sugli altri, distorcendo la loro interpretazione delle interazioni sociali. Inoltre, le aspettative personali possono influenzare significativamente la percezione degli altrui comportamenti, creando un circolo vizioso di fraintendimenti e concretizzando un meccanismo noto come profezia che si autoavvera.
A questo punto della storia, in tanti avranno già compreso dove voglio arrivare: molto spesso le ragioni del proprio insuccesso sono determinate da una percezione professionale di sé stessi (reale o presunta) che è inappropriata o (forse peggio) ritenuta inopportunamente sovradimensionata.
Ed è proprio questo gap tra reale e percepito a generare la profezia che si autoavvera, e a causa della quale non si riesce a scalare la vetta e raggiungere la propria condizione di successo. Spesso quella consapevolezza di non aver adeguatamente acquisito le necessarie competenze in un determinato settore diventa non solo un limite al raggiungimento, ma dà luogo alla necessità di trovare un colpevole su cui proiettare la responsabilità.
Altre volte è la sottovalutazione di sé stessi a fare da deterrente nei confronti della spinta motivazionale verso il cambiamento. Poi, certamente, occorre che vi siano anche occasioni da cogliere.
Precisando che nessuno di coloro che il successo lo hanno raggiunto riterrà mai che sia stato frutto del caso, diciamo che, innegabilmente, avere delle buone opportunità è una circostanza facilitante.
Tuttavia, le opportunità da sole non bastano: il successo sembra manifestarsi quando i tre elementi convergono armoniosamente: competenze, motivazione e, come detto, opportunità.
Le competenze costituiscono il fondamento su cui si costruisce ogni azione di valore e sono l’elemento che occorre ricercare per primo, domandandosi se il proprio percorso è stato (al netto dell’italico pezzo di carta) idoneo ad acquisirne. Poiché, se ci si trova davanti a un’opportunità senza le competenze adeguate, anche la più forte delle motivazioni da sola non basta e, al meglio delle ipotesi, ci si scontrerà con una condizione scoraggiante e di sostanziale impotenza.
Altrettanto vero è che le competenze, per quanto elevate, da sole non sono sufficienti se non si possiede la giusta motivazione, la voglia e la capacità di mettersi in gioco, e anche di rischiare in prima persona. Se si attende che il successo giunga come atto dovuto, occorrerà attendere il proprio turno a una fila piuttosto popolata. La motivazione è una componente imprescindibile che, al contrario delle competenze, è più difficoltosa da alimentare in modo efficace.
Solo per ultimo giunge quello che tutti, invece, vorrebbero subito e prima ancora di cominciare: una buona opportunità! Ma un’opportunità senza competenze si traduce in un’occasione mancata, e senza motivazione si perde nell’indifferenza.
Un professionista di successo, quindi, non è solo competente ma anche motivato, e non è solo motivato ma ha saputo cogliere il momento giusto per agire, continuando ad alimentare competenze e motivazione, poiché nessuna vetta raggiunta è un traguardo stabile. Il successo non è mai un caso, e non è mai (solo) fortuna. Questa è solo la magra consolazione di chi non ha saputo coltivare competenze, non è mai stato motivato, e molto probabilmente non ha saputo neppure vedere le opportunità.
Posto che non è mai troppo tardi per costruire le proprie competenze, se si ritiene di non aver ancora raggiunto la condizione sperata, occorrerebbe provare a rispondere a queste domande: “Sto sognando di trovare un lavoro, sto cercando il lavoro dei miei sogni, o lo sto creando?” E ancora: “Cosa farei se sapessi di non poter fallire professionalmente? E perché, pur ritenendomi preparato, non provo a farlo?”.
Un nuovo anno è da poco iniziato: a ciascuno la scelta di agire o, nel mentre ci si lamenta, continuare semplicemente a sperare.