L’analisi dell'effetto della criocabina come modello di recupero e condizionamento della performance nell’allenamento combinato, ha esaminato i parametri emodinamici e bio-impedenziometrici, gli indici di sensibilità baroriflessa, i dati metabolici e la temperatura. Si sono affrontati gli effetti di PBC (3 min a -160 ° C) sul recupero acuto in seguito ad un allenamento di forza e sulla successiva prestazione a carattere intermittente ad alta un’intensità (HIIT). Dai nostri dati è emerso che: (1) l’allenamento di forza ha determinato una riduzione dei valori di bioimpedenza, un aumento della frequenza cardiaca con diminuzione dell’azione vagale, accompagnata infine da un aumento della temperatura cutanea. (2) Il recupero ha portato ad una riattivazione vagale con inibizione simpatica, riabbassando la frequenza cardiaca e ripristinando i valori BIA. (3) È stato osservato che una seduta con criocabina (3 di PBC a -160°C) al termine del recupero, rispetto alla condizione CON ha determinato:
(4) In seguito, durante l’HIIT, è emerso che nella condizione CRIO, rispetto alla condizione CON, i soggetti hanno eseguito l’allenamento di potenza aerobica con una consumo di ossigeno (VO2), una potenza metabolica, una costo energetico, una ventilazione minuto ed una frequenza cardiaca a valori più bassi, sinonimo di economia della prestazione. Accompagnato inoltre da un accumulo maggiore, non significativo, di lattato.
Dai dati raccolti sulla bio-impedenza, sembrerebbe che l’allenamento di forza abbia provocato una diminuzione delle componenti del vettore d’impedenza (resistenza, reattanza e angolo di fase), quindi un accorciamento del vettore, indice di uno stato di iper-idratazione in tutti i soggetti, nonostante alcuni non abbiano integrato liquidi durante la seduta.
L’iper-idratazione apparente potrebbe essere spiegata da un aumento dei liquidi intracellulari in seguito alle contrazioni muscolari richieste dall‘allenamento di forza, meccanismo definito di ipertrofia temporanea. Si è visto che l’esercizio di forza causa una alterazione nel bilancio di acqua intra ed extracellulare, il quale dipende dall’intensità e dal tipo di esercizio svolto. La crescita muscolare è massimizzata dall’esercizio che stimola la glicolisi, con accumulo di lattato che stimola cambiamenti osmotici nel muscolo. Le fibre di tipo II sono particolarmente suscettibili di modificazioni osmotiche, forse anche perché hanno un elevata concentrazione di canali di trasporto dell’acqua chiamate acquaporine 4.
Questi canali sono presenti nel sarcolemma delle cellule muscolari mammarie di tipo IIa (fast-twitch oxidative-glycolytic fibers) e IIb (fast twitch glycolytic fibers), i quali facilitano l’entrata di fluidi all’interno della cellula. Dato che le fibre di tipo II sono più responsive all’ipertrofia, è concepibile che l’idratazione cellulare aumenti le risposte ipertrofiche durante l’allenamento di forza il quale si basa sulla glicolisi anaerobica.1 L’affaticamento muscolare da esercizio intenso porta ad un rallentamento della pompa sodio potassio, con accumulo del sodio intracellulare e un maggior utilizzo del potassio extracellulare da parte di altri tessuti; con un calo dell’eccitabilità di membrana e di contrattilità delle fibre.
Il cambio di gradiente può aver portato ad un aumento dell’idratazione cellulare per preservare l’integrità e/o rispondere all’aumento della risposta ipertrofica. Comunque l’iper-idratazione è stata temporanea, poiché in seguito al recupero di un’ora e mezza i parametri bioimpedenziometrici sono ritornati ai livelli basali nella condizione CON. Invece nel recupero con CRIO le componenti d’impedenza sono aumentate, allungando il vettore, fino a superare i valori di baseline. L’effetto crioterapico ha influenzato i parametri bioelettrici in modo diametralmente opposto rispetto all’allenamento di forza; ed in una grandezza maggiore rispetto al recupero passivo.
Probabilmente l’azione miorilassante del freddo, l’aumento della vasodilatazione periferica e lo shift ematico al centro del corpo, oltre ad aver garantito il normale recupero, ha causato una fuoriuscita maggiore di liquido intercellulare, sgonfiando i miociti. Inoltre l’allenamento di forza ha determinato un aumento della temperatura corporea media (fronte, mano e piede) di 0,7°C, ridotta poi di 0,14°C in seguito al recupero CON, e di 1,82°C nel recupero CRIO, con una differenza di 2°C. Nel post crioterapia abbiamo riscontrato dei problemi nella rilevazione delle temperature con termometro ad infrarossi, probabilmente a causa delle basse temperature della pelle e dei limiti di raccolta dello strumento (frontale da 34,0 a 42,5°C), ipotizzando temperature raggiunte della cute inferiori a 34,0°C.
Krüger, in seguito all’esposizione con criocamera, ha riscontrato una significativa riduzione della temperatura corporea (- 4,5°C). Nel loro studio si è scoperto che dopo 20 minuti dalla crioterapia, la temperatura media della pelle subiva una riduzione maggiore rispetto al dato ottenuto nel nostro studio. È comunque da tenere in considerazione che precedentemente alla seduta di crioterapia, nello studio di Krüger è stato eseguito un recupero di un’ora e le apparecchiature utilizzate per la rilevazione della temperatura erano più affidabili della nostra.
L’allenamento di forza ha provocato un aumento della frequenza cardiaca, riconducibile ad un aumento dell’azione simpatica, inibita poi durante il recupero in seguito a riattivazione vagale e ripristino dei livelli basali di tutti i parametri analizzati. Durante le analisi pre HIIT sono emerse delle differenze medie non significative negli indici di variabilità cardiaca tra le due condizioni (CRIO/CON). Inoltre al termine del recupero con CRIO la frequenza cardiaca è scesa maggiormente suggerendo una maggior inibizione simpatica ed un controllo vagale maggiore sul cuore. Anche durante l’HIIT dopo CRIO la frequenza cardiaca si è mantenuta, significativamente, più bassa, probabilmente l’esposizione al freddo ha determinato una predominanza del tono parasimpatico.2
In linea con il nostro studio, Krüger in seguito all’esposizione con criocamera, è stata riscontrata una significativa riduzione della Fc durante il test incrementale, riportando che la riduzione della frequenza cardiaca può spiegare la migliore prestazione dopo crioterapia grazie al miglioramento dell’efficienza cardiaca e quindi un ad minor sforzo cardiovascolare a intensità submassimale. È ben documentato che la riduzione della temperatura corporea e tissutale provochi vasocostrizione periferica e riduca il flusso ematico in quella zona. Questo comporta un incremento del ritorno venoso, della pressione arteriosa, e quindi della gittata sistolica, causando una diminuzione della frequenza cardiaca per mantenere la gittata cardiaca costante. Anche altri studi hanno riscontrato una diminuzione della frequenza cardiaca massima in modo significativo dopo esposizioni al freddo.3
Altri studi invece, in seguito ad un’esposizione rapida al freddo hanno ipotizzato un aumento della stimolazione del sistema nervoso autonomo con un aumento dell’attività simpatica. È possibile che in seguito ad una diminuzione rapida della temperatura (shock termico) il corpo risponda con un aumento della frequenza cardiaca prima di stabilizzarsi, ma possiamo solo ipotizzarlo perché la prima registrazione post crioterapia è stata eseguita non prima di mezz’ora. In seguito alla seduta con criocabina, rispetto alla condizione CON, è stata riscontrata una gittata cardiaca, una gittata sistolica, e una pressione arteriosa media più bassa, con un aumento di quasi il doppio delle resistenze periferiche totali e della sensibilità baroriflessa.
L’aumento dell’attività baroriflessa dopo crioterapia potrebbe aver causato l’aumento dell’attività parasimpatica.4 Nello studio di Buchheit, dopo immersione in acqua fredda per un breve periodo dopo un esercizio massimale, si è evidenziato un ripristino della modulazione vagale con riattivazione del parasimpatico. Buchheit ipotizza un’interazione simpato-vagale con un’attivazione ad alti livelli di entrambi i rami del sistema autonomo, responsabili simultaneamente sia della termoregolazione, che della stabilità cardiovascolare e rispristino dell’omeostasi.
Essi hanno concluso che il raffreddamento ha influenzato il controllo vagale sul cuore, e che l’aumento dell’attività del SNA è stato associato ad un miglior recupero. Sempre Buchheit rileva un effetto cardioprotettivo del raffreddamento in seguito ad un aumento di calore post esercizio sovramassimale. Nell’HIIT post CRIO la riduzione sistemica della frequenza cardiaca e della gittata cardiaca potrebbero aver controbilanciato l’aumento delle resistenze periferiche totali. La gittata cardiaca potrebbe essere stata ridotta a causa della diminuzione della frequenza cardiaca, determinando un ridotto volume di sangue espulso dai ventricoli al minuto con una conseguente riduzione della pressione sistolica. L’esposizione al freddo estremo riduce la gittata cardiaca e può quindi produrre cambiamenti nel volume ematico circolatorio venoso che può portare ad una riduzione del ritorno venoso. È evidente che la vasocostrizione periferica indotta dal freddo abbia portato un aumento del volume ematico a livello centrale determinando una riduzione della frequenza cardiaca per mantenere un corretto rendimento. L’aumento dell’attività parasimpatica sul cuore potrebbe aver accelerato il recupero spiegando la miglior performance nell’esercizio intermittente ad alta intensità (HIIT) eseguito dopo.
Durante l’allenamento intervallato ad alta intensità (HIIT), il recupero con criocabina sembra aver determinato un consumo di ossigeno (VO2) e una frequenza cardiaca media minore, come riscontrato nello studio di Krüger altre ricerche potrebbero spiegare il ridotto consumo di ossigeno in seguito al raffreddamento; Abramson indica che i livelli di ossigeno nel muscolo umano a riposo sono in funzione della temperatura ambientale, Binzoni in seguito a dei prelievi di campioni ematici intramuscolari a differenti temperature ambientali ha riscontrato concentrazioni di ossigeno più basse al calare della temperature. Koga riporta che le curve di O2 e temperatura diminuiscono esponenzialmente in funzione del tempo. In aggiunta, l’HIIT dopo CRIO, rispetto alla condizione CON, seppur non significativo, ha indicato un aumento dei livelli di lattato ematico in linea con altri studi. Klimek nel 2010 ha riscontrato un’influenza del trattamento criogenico sull’accumulo di lattato in seguito ad una prova di resistenza, suggerendo un aumento della glicolisi anaerobica.
Come indicato da Binzoni il freddo può cambiare in alcuni casi il contributo frazionario di diversi substrati, modulati ad esempio dai livelli di catecolamine circolanti e dalla temperatura stessa. Considerando che l’allenamento proposto dopo crioterapia è prevalentemente aerobico glicolitico, bisogna tenere in considerazione che la risposta ai cambiamenti di temperatura osservata nel muscolo potrebbe non indurre gli stessi effetti in diverse situazioni fisiologiche, come altre tipi di allenamento. È noto come la velocità della glicolisi e le reazioni ossidative sono dipendenti dalla temperatura. Ishhi ipotizza una cinetica del consumo di ossigeno più lenta e un deficit di O2 maggiore in seguito ad un decremento della temperatura muscolare; aggiungendo che il deficit potrebbe essere comunque compensato da un aumento del reclutamento addizionale di fibre (determinando una cinetica del VO2 uguale) a meno che non si tratti di un esercizio submassimale.
Ciò potrebbe spiegare perché nella condizione HIIT dopo CRIO i soggetti hanno presentato un minor consumo di ossigeno, ipotizzando che l’alternanza del carico massimale (90%VO2max) e submassimale (45%VO2max) dell’HIIT può aver determinato un deficit di ossigeno, portando ad una maggior attivazione della glicolisi anaerobica. In letteratura sembrerebbe che all’aumentare della temperatura cali l’affinità dell’emoglobina per l’ossigeno confermatoci dal seguente studio che in seguito alla diminuzione di temperatura ha verificato oltre ad una riduzione del flusso sanguineo muscolare e della frequenza cardiaca massima, anche uno spostamento a sinistra della curva di dissociazione dell’ossigeno, aumentando l’affinità dell’emoglobina per l’ossigeno. Come osservato nello studio di Ferretti, la diminuita tendenza dell’emoglobina nel cedere ossigeno potrebbe spiegare la ridotta cinetica del consumo di ossigeno osservata nell’HIIT post-CRIO.
Marsh ha riportato in seguito ad un pre-raffreddamento una ridotta frequenza cardiaca, suggerendo un aumento del volume di sangue centrale con una migliore irrorazione dei muscoli. Sempre Marsh in seguito ipotizza che una maggiore disponibilità di sangue al muscolo potrebbe migliorare il trasporto di ossigeno. Il maggior flusso di sangue al muscolo potrebbe aumentare la rimozione del lattato con un aumento transitorio del lattato ematico, non riscontrato dopo HIIT post-CRIO, inoltre la sua velocità di ossidazione potrebbe esser stata influenzata da altri fattori. La bradicardia nell’HIIT post-CRIO potrebbe essere interpretata come una risposta all’aumento della saturazione dei muscoli attivi; Kruger in seguito a criocamera ha riscontrato una maggior saturazione del vasto laterale.
Considerando che in entrambe le situazioni HIIT (CRIO, CON), l’intensità intesa come percentuale della VO2max individuale era la medesima, possiamo concludere che nella condizione CRIO la ridotta frequenza cardiaca potrebbe essere sintomo di un miglior recupero e/o di un ridotto sforzo nell’eseguire l’allenamento. La migliore prestazione dopo PBC potrebbe essere derivata da un miglioramento dell’efficienza cardiaca o da un ridotto sforzo cardiovascolare ad intensità submassimale. PBC ha determinato una riduzione dello sforzo necessario per completare l’HIIT, testimone il ridotto consumo di ossigeno, probabilmente a causa di un ridotto apporto di sangue e ossigeno ai muscoli passivi, in seguito ad una vasocotrizione periferica con una vasodilatazione solo nei muscoli attivi. Inoltre PBC durante HIIT post-CRIO ha determinato un costo energetico (CE), una potenza metabolica (Pmet) e una ventilazione minuto (VE) ridotta rispetto alla condizione HIIT post-CON.
Per mantenere la corsa in accelerazione e pagare l’elevato costo energetico dell’allenamento intervallato sono dovuti intervenire diversi meccanismi metabolici. Sembrerebbe che durante la HIIT post-CRIO, rispetto a HIIT post-CON, una percentuale maggiore del dispendio energetico sia stata pagata dalla glicolisi anaerobica. Klimek ha riscontrato in seguito a dieci trattamenti WBC, in criocamera, un significativo aumento della potenza anaerobica negli uomini. Successivamente Andrzej T., durante Wingate test, ha riscontrato una minor velocità di avvio al momento di ottenere la massima potenza aerobica (MAP), concludendo che una singola seduta di WBC potrebbe influenzare significativamente la resistenza alla velocità in brevi sforzi ad intensità sovramassimali. Un’eventuale riduzione della MAP potrebbe essere conseguente all’abbassamento della temperatura muscolare con una ridotta velocità di contrazione. Inoltre l’HIIT post-CRIO è stata caratterizzata da una minore ventilazione minuto che ci indica una sufficiente disponibilità di ossigeno ai muscoli scheletrici.
La zona di frequenza HF della variabilità cardiaca, espressione dell’attività del sistema nervoso parasimpatico, subisce un’elevata influenza da parte del ritmo e della profondità della respirazione. Sempre durante HIIT in seguito a esposizione criogenica, abbiamo riscontrato una miglior economia di lavoro, indicataci da un ridotto costo energetico e di conseguenza ad una ridotta potenza metabolica. Una ridotta potenza metabolica, a parità di lavoro, sintomo di un’ottimizzazione del dispendio energetico è un parametro molto più attendibile, del singolo consumo di ossigeno, nella misurazione della performance sportiva. Il costo energetico è stato ricavato dall’energia di lavoro prodotta dal sistema aerobico e anaerobico lattacido. Nonostante un accumulo maggiore, non significativo, di lattato al termine di HIIT post-CRIO (rispetto a HIIT post-CON) suggerirebbe una maggior spesa energetica, il ridotto consumo di ossigeno è stato rilevante nel determinare un miglior rendimento. Non è comunque da escludere che nell’HIIT post-CON un aumento della temperatura corporea o un recupero insufficiente, (ridotta attivazione vagale rispetto a CRIO), possa aver compromesso il rendimento.
Probabilmente il trattamento crioterapico agendo direttamente su gran parte dei muscoli, potrebbe aver portato ad una miglior efficienza, agevolando il trasporto di ossigeno nei muscoli attivi e/o influenzando un metabolismo differente di quello aerobico e anaerobico lattacido. Una riduzione della temperatura potrebbe aver avuto un effetto sulla potenza generata. In linea con lo studio di Kruger possiamo riportare una frequenza cardiaca ridotta, un ridotto carico metabolico ed una VO2 più bassa rispetto alla condizione di controllo. La frequenza cardiaca ridotta e la diminuzione delle tensioni cardiovascolari, indici di una migliore efficienza cardiaca, come il ridotto costo energetico e il ridotto consumo di ossigeno ci suggeriscono uno sforzo minore per completare l’esercizio. La stimolazione parasimpatica determinando una rapida decelerazione cardiaca in combinazione comunque con il raffreddamento dei tessuti, gli adattamenti metabolici, cardiorespiratori ed emodinamici hanno influenzato positivamente la seconda seduta di allenamento.
I soggetti in seguito ad esposizione criogenica con criocabina (PBC 3min a -160°C), in condizioni ambientali a temperatura neutra, oltre ad aver ripristinato i parametri modificati dall’allenamento di forza ha permesso di eseguire l’allenamento intervallato ad alta intensità (HIIT) con una miglior efficienza cardiaca e meno sforzo cardiovascolare ad intensità submassimali e con una economia di lavoro maggiore (minor CE, VE, Fc, Pmet, VO2), forse imputabile ad una maggiore ossigenazione dei muscoli attivi. Come riportato da un recente studio, le strategie di recupero che sfruttano l’azione del freddo sono ampiamente usate nel rugby e possono portare benefici quali diminuzione del gonfiore, dell’infiammazione acuta e del danno muscolare.5
Citando lo studio di Banfi sui rugbisti il quale associa al trattamento crioterapico un miglior recupero degli indici di danno muscolare da esercizio. Conoscendo le necessità degli atleti d’elite di rugby di eseguire più allenamenti al giorno per più giorni consecutivi, la crioterapia corpo parziale (PBC) potrebbe aiutare il recupero nelle sedute di allenamento successive. Ma visto che il freddo può potenzialmente limitare l’apporto di sangue al muscolo, la sintesi proteica, e le vie di segnalazione ipertrofica influenzando le dimensioni muscolari, si suggerisce un’applicazione del freddo solo nei periodi in cui l’obiettivo principale non è lo sviluppo di massa muscolare. Un vantaggio inteso come miglioramento del recupero o della qualità di allenamento successivo può supplire ad un potenziale effetto sulle dimensioni del muscolo. Pertanto, sulla base dei nostri risultati, si consiglia PBC, in condizioni ambientali di temperatura neutra, per allenatori e professionisti che mirano ad aumentare la qualità delle sedute di allenamento successive, perlomeno di resistenza, che si verificano entro un breve lasso di tempo.