La parola crioterapia origina etimologicamente dall’unione di due parole greche “κρύος” (krýos) ovvero freddo o gelo e da “ϑεραπεία” (therapeía) cura o guarigione, da cui deriva il termine “cura del freddo”. Nasce in Giappone nel 1978 come applicazione terapeutica per la cura di diverse patologie sfruttando i benefici indotti dal freddo. La crioterapia sistemica a differenza delle altre procedure di raffreddamento consiste nell’esposizione a temperature molto basse che di norma non sono ritrovabili sulla terra.
Queste temperature rigide possono oscillare tra -110°C e -170°C, e vengono raggiunte mediante l’evaporazione dell’azoto liquido, un gas molto comune in natura (compone il 78% dell’atmosfera terrestre). Può essere trasportato sotto pressione, ridotto in stato liquido, e una volta che viene liberato assorbe il calore per poter evaporare, sviluppando il suo potere refrigerante. Il gas viene iniettato da appositi ugelli all’interno di due differenti strumentazioni: la criocamera e la criocabina. La criocamera è costituta da un ambiente chiuso abbastanza ampio da permettere l’ingresso a 3-4 persone, le quali possono eseguire contemporaneamente il trattamento, mentre la criocabina di forma cilindrica con un’apertura superiore costituisce uno spazio molto più ristretto che permette l’ingresso ad un solo soggetto alla volta. Una grande novità rispetto ad altre procedure di raffreddamento consiste nel fatto che la crioterapia sistemica ha ridotto drasticamente i tempi di esposizione al freddo.
A causa delle proprietà convettive dell’azoto sulla superficie corporea umana, si è stabilito un tempo di esposizione di due o tre minuti, che è sufficiente per determinare un raffreddamento cutaneo. Inoltre l’azione secca del gas agisce per pochi centimetri al di sotto della cute, non determinando un’azione diretta sui muscoli e organi interni, che si verificherebbe invece in seguito ad un’esposizione con freddo umido, rappresentando un aspetto non trascurabile in termini di sicurezza.
La crioterapia nasce come alternativa all’immersione in acqua fredda o ad altre pratiche di esposizione al freddo, molto spesso utilizzate nello sport come mezzo di recupero. Definita “sistemica” per la sua azione sull’intero corpo, a differenza della crioterapia localizzata che prevede l’applicazione del freddo solo in una zona ridotta; come avviene in genere con l’utilizzo di impacchi di ghiaccio in seguito a contusioni o traumi muscolo-scheletrici. La stimolazione termica criogenica applicata alla superfice corporea innesca delle reazioni fisiologiche analoghe all’applicazione del ghiaccio. La sua applicazione localizzata ha lo scopo di provocare vari effetti benefici in risposta al freddo.
La perdita di calore cutanea, a livelli d’ipotermia, può influenzare la trasmissione dei segnali dolorosi e determinare una riduzione della percezione del dolore (effetto analgesico). Inoltre, l’applicazione del ghiaccio ha l’obiettivo di ridurre il gonfiore grazie all’effetto antiedemigeno correlato con la vasocostrizione indotta, che può impedire o ridurre lo stravaso di sangue nei tessuti. In aggiunta il raffreddamento del muscolo può determinare una riduzione dell’input sensoriale e un’inibizione dei riflessi da stiramento causandone il rilassamento, riconducibile all’azione antispastica e miorilassante del freddo. Allo stesso modo la crioterapia provoca costrizione dei vasi ematici superficiali, a cui segue una successiva e quasi immediata vasocostrizione sistemica, con lo scopo di preservare il calore nei distretti più profondi e degli organi interni. Tale effetto rimane stabile fino al raggiungimento dei 15°C, mentre sotto questo limite l’effetto risulta opposto: s’instaura così una vasodilatazione e i nervi non sono più in grado di trasmettere il segnale di freddo.
La vasodilatazione rappresenta un processo di auto-protezione dell’organismo, una difesa che il sistema mette in atto per evitare il blocco della circolazione sanguinea. La regolazione del flusso ematico ha il compito di riequilibrare l’omeotermia, ovvero il rapporto tra produzione e perdita di calore dalla superficie. Basti pensare che: in una condizione normo termica il flusso sanguineo cutaneo è in media del 5% della gittata cardiaca; durante un forte stress termico, a causa di una massima vasocostrizione si può ridurre il flusso sanguineo fino allo 0%, mentre invece in una situazione di massima vasodilatazione si può arrivare ad un incremento del flusso del 60%.1
Questa alternanza di vasocostrizione e vasodilatazione definita “vasomotricità paradossale” stimola il microcircolo, migliorando l’apporto di sangue, l’ossigenazione delle cellule dermiche e il trasporto di nutrienti. Per mantenere l’omeostasi in risposta al freddo, oltre ad un adattamento circolatorio si verifica una sincronizzazione endocrina e metabolica. Vari studi associano alla crioterapia corpo intero un aumento del metabolismo; in seguito alla stimolazione del sistema autonomo e all’aumento dell’attività simpatica e dunque a un aumento della secrezione di catecolamine e alla stimolazione dei recettori beta-adrenergici è stata osservata un’intensificazione dei processi lipolitici di beta-ossidazione, con mobilitazione secondaria dei substrati tramite idrolisi, glicogenesi, proteolisi e aumento nell’attività di trasporto di membrana nei muscoli.
La crioterapia sistemica oltre a essere ampiamente utilizzata nella cura di differenti patologie, soprattutto nelle malattie dell’apparato locomotore riguardanti stati infiammatori, artrosi, fibromialgia, osteoporosi e patologie post-traumatiche e da sovraccarico su articolazioni o tessuti molli viene impiegata nella medicina sportiva per accelerare il recupero da traumi contusivi e affaticamento muscolare in seguito ad allenamenti o gare. Tra gli effetti positivi attribuiti alla crioterapia corpo intero (WBC), troviamo un effetto analgesico, antiedemigeno, antiinfiammatorio e antispastico oltre ai benefici sulla salute mentale2, con aumento di endorfine ed encefaline.3
Diverse discipline sportive hanno utilizzato la crioterapia sia come metodo di recupero che come strumento per condizionare la performance; da tre ciclisti partecipanti al tour de France del 2011, che la utilizzarono due volte al giorno, prima di ogni tappa e prima di andare a dormire; da vari calciatori celebri ne hanno fatto crescere la popolarità nella cronaca sportiva, a piloti della moto GP fino ai giocatori dalla federazione italiana di rugby, ai quali è stato sottoposto il trattamento già nel 2007 in occasione della coppa del mondo di rugby. La forte crescita di popolarità e di utilizzo che ha avuto la crioterapia nell’ultimo anno ha dell’incredibile; basti pensare che solo in Italia, qualche anno fa, da un esiguo numero di centri in possesso di strumentazioni criogeniche adesso se ne possano contare più di 40. Secondo varie riviste sportive, anche la nazionale di rugby gallese (WRU) sembra abbia utilizzo la crioterapia corpo intero (WBC) in occasione del “6 nazioni” del 2012, il più importante torneo internazionale di rugby a 15 dell’emisfero nord, che l’ha vista vincitrice con 5 match vinti su 5.
La federazione italiana rugby (F.I.R.) dal 2015, essendo in possesso della strumentazione, ha inserito nella normale programmazione atletica settimanale della nazionale maggiore varie sedute di crioterapia corpo intero (WBC). In uno sport di contatto quale il rugby dove più il livello è alto più gli atleti sono sottoposti a forti collisioni e a grandi sforzi fisici, la ricerca di un metodo di recupero per contrastare la stanchezza e velocizzare il ritorno in campo è di rilevante importanza. Lo sforzo fisico richiesto in seguito a una partita di rugby potrebbe essere paragonato ad un esercizio intermittente dove periodi ad alta intensità si alternano a periodi di bassa attività che possono protrarsi complessivamente fino a 80 minuti, all’interno dei quali le dinamiche del gioco impongono scontri fisici e situazioni di lotta che vanno a incrementare il carico sottoposto all’atleta.4
In crioterapia si distinguono due differenti strumentazioni, ovvero la criocamera e la criocabina. Differiscono sia in termini di spazi che di temperature raggiungibili. La criocamera è un’ambiente chiuso diviso in due stanze dove nella prima stanza la temperatura è meno rigida e prepara a un raffreddamento più graduale mentre nella seconda si raggiunge la temperatura definitiva (da -110°C a -140°C). Invece la criocabina, consiste in un cilindro aperto superiormente, dove il soggetto resta con la testa fuori, grazie ad una pedana regolabile in altezza, immerso nei vapori di azoto a una temperatura che può oscillare da -120°C a -170°C. All’interno della criocamera il gas refrigerante viene iniettato da più ugelli mentre all’interno della criocabina è presente un solo iniettore, generalmente posizionato frontalmente al soggetto. Per entrambe le strumentazioni la temperatura è visibile sul monitor. Sebbene in letteratura attribuisca spesso il termine “WBC” (crioterapia corpo intero) per indicare entrambe le procedure criogeniche5, in realtà non riteniamo sia propriamente corretto: nella criocabina i gas di azoto rivestono il soggetto fino alle spalle non arrivando a contatto con la testa, diversamente da quanto avviene della criocamera, dove all’interno dello spazio chiuso il gas ricopre tutta la superfice corporea del soggetto.
Quando si parla di criocabina dunque, come ritrovato solo in una parte degli studi, sarebbe più corretto parlare di PBC ovvero crioterapia corpo parziale. In letteratura la maggior parte degli studi sono stati condotti con criocemera e solo studi più recenti hanno utilizzato la criocabina, rendendo sempre più necessario un linguaggio universale per migliorare lo studio bibliografico e la distinzione tra le due strumentazioni. Prima di parlare degli aspetti analoghi bisogna evidenziare che, sebbene utilizzino lo stesso metodo di raffreddamento, agiscono su una percentuale della superfice corporea differente e presentano differenze nelle capacità convettive. Uno studio del 2013 ipotizza di essere stato il primo ad aver analizzato la temperatura effettiva della pelle all’interno di una criocabina oltre alla temperatura effettiva dell’aria nelle diverse zone della cabina.
È stata monitorata la temperatura della pelle per 60 minuti dopo criocabina (3 minuti da -140 a -195°C), registrando successivamente alla seduta la temperatura più bassa su un soggetto reale e su un manichino. Mentre sul soggetto reale la temperatura più bassa era stata di -35°C sulla coscia, sul manichino era stata di -150°C; confermando il fatto che l’aria in cabina raggiunge temperature meno rigide a causa della convezione con il paziente, suggerendo di tenere in considerazione il metabolismo del corpo umano durante l’impostazione della temperatura. Infatti come vedremo in seguito, abbiamo tenuto in considerazione la percentuale di massa grassa dei soggetti testati, conoscendo le influenze di questa sulla termoregolazione. Le temperature più basse registrate sul manichino erano sulle gambe mentre sui soggetti reali risultavano su coscia e tronco, probabilmente a causa delle calzature indossate, della distribuzione di calore corporea degli arti inferiori o all’altezza del soggetto rispetto all’ugello posizionato a media altezza.
Cholewka nel 2012 ha riportato temperature della pelle in seguito a criocamera in linea con quelle ritrovate in questo studio, mentre Westerlund nel 2003 sempre con criocamera ha rilevato temperature più basse in polpaccio e avambraccio, forse riconducibile al differente numero di ugelli e alla loro posizione all’interno della camera. Cholewka ha riportato variazioni di temperatura in criocamera comprese tra -67 e -125°C in relazione all’altezza. Probabilmente la temperatura in criocamera è più costante a causa del grande volume di aria fredda e all’alto numero di ugelli presenti mentre all’interno della criocabina le continue fluttuazioni di temperatura la rendono meno stabile. Nella criocabina l’azoto liquido essendo iniettato da un unico punto non viene omogeneamente distribuito al suo interno, perciò viene suggerito di istruire i soggetti a voltarsi durante la seduta per garantire un’esposizione di tutte le partiti del corpo in maniera più omogenea. La temperatura che viene visualizzata in tempo reale sul display è registrata nel punto di iniezione e non all’interno della cabina, spiegando il perché la temperatura media nella cabina è notevolmente superiore alla temperatura indicata dallo strumento.
Come osserveremo nel prossimo studio, per compensare la ridotta conduttività termica della criocabina rispetto alla criocamera vi è la necessità di impostare la seduta a temperature inferiori. Hausswirth ha messo a confronto una singola seduta “WBC” (3 minuti a -110°C in criocamera) con una singola seduta di “PBC” (3 minuti a -160°C in criocabina) osservando in entrarmi i casi una stimolazione immediata del sistema nervoso autonomo con una predominanza del tono parasimpatico. In entrambe le strumentazioni si è registrata una riduzione della temperatura cutanea sebbene in modo più marcato dopo criocamera (WBC). In criocamera è stata riscontrata una ridotta temperatura timpanica seguita da una stimolazione più pronunciata del sistema nevoso autonomo (SNA), probabilmente a causa della testa a contatto diretto con il gas, che potrebbe aver causato una stimolazione del trigemino, suscettibile alle variazioni termiche.
Inoltre Hausswirth ha evidenziato concentrazioni plasmatiche di noradrenalina maggiori dopo WBC (+76,2%), con un aumento della pressione sistolica e diastolica accompagnate da un aumento del disagio termico. Invece la frequenza cardiaca è scesa in entrambi i trattamenti, corrispettivamente del 10,9% dopo crioterapia corpo parziale con criocabina e del 15,2% dopo crioterapia corpo intero con criocamera. L’esposizione al freddo sopprime l’attività simpatica cardiaca e aumenta l’attività parasimpatica per attivazione del baroriflesso arterioso. Confermato da uno studio più recente di Bleakley del 2014, il quale riporta che il baroriflesso attivato in seguito all’aumento della pressione centrale è responsabile della riduzione dell’attività del nervo simpatico con un conseguente aumento del controllo parasimpatico sulla frequenza cardiaca.
Nonostante le differenze riscontrate nelle due strumentazioni, Miroslav nel 2013 conclude dicendo che la risposta osservata dopo criocabina è simile a quella osservata dopo criocamera comportando dei vantaggi in termini di valore pratico, sui costi e sul trasporto. Nel 2014, Ferreira-Junior ha osservato un miglior recupero muscolare nella prestazione eccentrica in seguito a crioterapia corpo parziale (3 minuti PBC a -110°C) utilizzando la criocabina nel recupero tra due sessioni di allenamento ad alta intensità. Sempre nel 2014 Fonda ha esaminato le risposte termiche e cardiovascolari dopo 90, 120, 150 e 180 secondi osservano una significativa diminuzione della temperatura cutanea solo a 150 e 180 secondi, però con un aumento lineare del disagio termico, confermando che 150 secondi potrebbero essere il tempo ottimale per studi futuri in criocabina; molto vicino ai due minuti consigliati da Selfe per la criocamera.