La figura del cyborg si presenta come caratteristica di una fase in cui il funzionamento spontaneo dell’organismo non rappresenta più un limite fisso e invalicabile agli interventi di ibridazione e di modifica. Questi ultimi non avvengono più, ormai, “a valle” dei dispositivi biologici di fondo (come nel caso delle biotecnologie vegetali e animali tradizionali, con i loro meccanismi di selezione e ibridazione, e la creazione di nuove specie e varietà non esistenti in natura), ma “a monte” di quei dispositivi: l’azione dell’uomo può ormai modificarli in modo immediato e permanente, e in qualche modo “in tempo reale”, dando vita a un’estensione delle possibilità di controllo e di regolazione dei processi biologici mai vista prima.
Questo significa che il postumano ci fa uscire dall’ambito della specie Homo Sapiens, che le biotecnologie configurano la possibilità della nascita di una nuova specie non più regolata dall’evoluzione biologica, ma dalla combinazione dell’evoluzione biologica ed evoluzione culturale? Se questa domanda non è priva di senso, a essa va risposta in primo luogo che Homo Sapiens, è stato da sempre Homo Technologicus, che la direzione del processo di tecnicizzazione della vita umana non è cambiata negli ultimi quarant’anni rispetto a 100.000, 500.000 o un milione di anni fa, che ciò a cui assistiamo non è altro che una straordinaria ed estensione di quello stesso processo: e che quindi non c’è ragione di dichiarare affrettatamente la nascita di una “nuova specie”. Se c’è qualcosa che possiamo chiamare “natura umana”, essa non è niente più che una straordinaria predisposizione alla plasticità, alla duttilità e alle varietà comportamentali, come dimostra l’amplissimo ventaglio di lingue e di culture che gli esseri umani sono stati capaci di costruire dalla loro comparsa sul pianeta: siamo esseri della possibilità, in lotta perenne e accanita contro la necessità. La nuova fase di ibridazione con la tecnologia, insomma, non rappresenta una deviazione dalle premesse, non ci fa uscire dall’alveo della specie. Ma al tempo stesso non possiamo negare che l’inedita ampiezza del fenomeno di intervento dell’uomo sui processi di evoluzione biologica (e anche geologica) del pianeta possa far nascere degli interrogativi sulle conseguenze a lungo termine dei nostri comportamenti culturali. Gli esseri umani non hanno mai dimostrato una simile capacità di modificare processi “naturali” in modo così ampio, diffuso e profondo.1
Il cyborg (Cybernetic Organism) è un essere umano ipotetico, modificato in modo da adattarsi alla vita in ambienti non terrestri tramite sostituzioni di organi artificiali e altre parti del corpo. Il cyborg incorpora deliberatamente componenti esogene utili a estendere la funzione di controllo autoregolatorio dell’organismo per permettergli di adattarsi a nuovi ambienti.
Il cyborg pone una grande sfida, perché rimodella la concezione stessa di “umano”. È un essere mutante, ibrido, un connubio di elementi tecnologici e biologici. L’idea stessa di “individuo” muta e, inevitabilmente, le categorie tradizionali che servono a definirlo: genere, etnia, identità. I cyborg rappresentano un ponte tra i due mondi, un tramite, una soglia che permette il contatto tra l’umano e il “post-umano”.2
Nei romanzi di William Gibson, per citare forse il più rappresentativo degli scrittori di questo genere, appare evidente non solo lo sforzo di coniugare il biologico con le nuove frontiere tecnologiche, ma anche l’intenzione di operare una critica nei confronti della società post-industriale e post-capitalista. I personaggi di Gibson sono veri e propri cyborg, uomini che portano sul corpo i segni fisici della tecnologia: un braccio meccanico multiuso, armi retrattili nascoste sotto le unghie, fori alla base del cranio. Questa mutazione o metamorfosi della carne in metallo o in chips non è però sempre indolore: il corpo fisico resta ancora come ‘materia organica’ sulla quale operare trapianti, innesti, interventi chirurgici che lasciano tracce sul corpo corazzato. Come ha messo in luce Scott Bukataman, il corpo diventa un ‘oggetto bricolage’ con vari accessori. Questo corpo, che tenta disperatamente di fondersi e confondersi con la macchina, diventa anche lo sfondo sul quale proiettare disagi sociali o possibili cambiamenti.
L’avvento del cyborg o simbionte ha provocato una vera e propria rivoluzione nel modo stesso di concepire l’uomo e la cultura. Ma ha causato una vera e propria rivoluzione anche nel come l’uomo si concepisce attraverso la propria immagine. Ha provocato, insomma un “andare oltre l’uomo”. Quello che è stato definito Transumanesimo. Questa tensione si è trasformata in un movimento intellettuale che, a detta di molti, prende il nome da un articolo scritto nel 1957 ha Huxley, in cui sostiene che gli uomini possono trascendere se stessi, ottenendo una nuova consapevolezza che è un vero trans-umanesimo, capace di realizzare tutte le nuove potenzialità insite nella natura umana. Il Transumanesimo – nelle sue numerose sfaccettature teoriche ed artistiche - ritiene che servirsi delle scoperte della scienza e della tecnologia per potenziare le capacità intellettuali e fisiche dell’uomo sia fondamentale, onde vincere sia la morte che la malattia. Con ciò giungendo a una condizione effettivamente post-umana, caratterizzata sia da una sorta di immortalità che da una straordinaria capacità conoscitiva. Rappresenta – in un certo senso – la risposta alla classica impossibilità di superare il deterioramento cellulare dell’uomo di cui parla Marvin Minsky, a meno di non creare “figli composti” secondo progetti prestabiliti e con cervelli ben più potenti di quelli degli uomini attuali. Questo, naturalmente, significa optare per un’ibridazione tra uomo e tecnologia che dovrebbe creare una nuova specie umana – il cyborg-simbionte – e un nuovo modo di interpretare il reale.
Significativi in proposito – anche per la loro genesi culturale e ideologica – sono alcuni salienti del “Manifesto dei Transumanisti Italiani” che rispecchiano i principi più generali del movimento:
“Noi transumanisti vorremmo vedere l’Italia e l’Europa protagoniste di una nuova fase di sviluppo tecnologico, scientifico, industriale, culturale, ma anche biologico – allungamento della vita, rallentamento del processo di invecchiamento, salute dei cittadini, potenziamento fisico e psichico di disabili e normodotati, anche oltre i limiti della nostra attuale struttura biologica. L’idea cardine del transumanesimo può essere riassunta in una formula: è possibile ed auspicabile passare da una fase di evoluzione cieca ad una fase di evoluzione autodiretta consapevole. Siamo pronti a fare ciò che oggi la scienza rende possibile: prendere in mano il nostro destino di specie.
Il nostro progetto non può essere confuso con l’eugenetica negativa e autoritaria predicata nel XIX secolo: la sterilizzazione dei portatori di malattie ereditarie è una risposta primitiva e brutale ad un problema che le nuove tecnologie permettono di superare lasciando intatta la libertà di procreazione degli individui e il diritto alla felicità del nascituro. I transumanisti aderiscono a diverse dottrine epistemologiche ma condividono la fiducia nella scienza. C’è chi ne esalta le possibilità cognitive e chi invece la definisce in rapporto alla sua capacità di fondare delle tecniche, ma non si trovano avversari della scienza.”3
Il third arm che Stelarc esibisce nelle sue performance, è davvero una “illusione ad alta fedeltà”? Il corpo non è soltanto “invaso”, ma anche “replicato” e “disseminato”. La globalizzazione unifica, ma distrugge, seguendo le inesorabili leggi dell’entropia. I “mondi possibili” di Freeman Dyson contemplano scenari evolutivi in cui l’uomo non è soltanto un passivo spettatore (Dyson, 1998), ma tutto ciò impone sempre più nuove regole e nuovi tabù. La società postmoderna ha quanto mai bisogno di un’etica che sembra dissolversi di fronte all’attivismo di frenetici sistemi produttivi e promozionali. Lo storico della medicina Mirko Drazen Grmek parlando de “La terza rivoluzione biomedica.”
Afferma che: “Si è aperta la strada alle manipolazioni che riguardano l’inizio, il destino biologico e la fine della vita individuale e superano di gran lunga le ambizioni dei medici di un tempo. Le diverse tecniche di fecondazione artificiale, la possibilità di conoscere molto precocemente alcune anomalie genetiche e perfino di intervenire direttamente sul genoma di un individuo hanno implicazioni teoriche e pratiche che superano l’ambito medico tradizionale. Lo stesso dicasi dei mezzi attuali per provocare stati tra vita e morte e per mantenere un organismo umano in uno stato di sopravvivenza artificiale. Questa padronanza inedita della creazione, del destino e della morte dell’individuo, solleva delicati problemi etici e impone una riflessione su concetti metafisici fondamentali. In una situazione in cui a gravi rischi di deriva si accompagnano insperate promesse, la medicina predittiva, l’ingegneria genetica, i trapianti di organi e l’uso di protesi sofisticate aprono prospettive talmente nuove, così esaltanti e inquietanti allo stesso momento, che l’aggettivo rivoluzionario non sembra esagerato. Tra le caratteristiche che accomunano le due precedenti rivoluzioni del pensiero biomedico a quella in corso, mi pare particolarmente interessante l’importanza crescente data a strutture sempre più fini e a funzioni sempre più fondamentali: dall’anatomia macroscopica e dalla fisiologia degli organi si è passati alla morfologia e quindi alla struttura molecolare e alla biochimica delle cellule, e infine alla struttura molecolare e al significato informativo delle entità subcellulari”.
R2 (Artoo) e C-3PO (See-Threepio), i simpatici androidi di Star Wars, stupiscono non per le loro forme, ma per come “vivono e pensano”. I giochi di parole, che si legano agli acronimi che li contraddistinguono, ancora una volta ci ricordano che “nihil sub sole novi”. Forse gli androidi salveranno l’umanità.
Nell’iter diagnostico del candidato al trapianto è prevista, oltre a una serie di esami che vertono sull’accertamento delle condizioni cliniche, anche un accertamento delle condizioni psichiche generali. I candidati al trapianto sono, infatti, soggetti che giungono a questa risorsa terapeutica percependola come ultima speranza di vita, dopo un lungo calvario di sofferenza. Sono sempre malati cronici, dipendenti dalle terapie mediche, come ad esempio la dialisi, costretti alla sospensione della propria attività lavorativa e profondamente limitati nello svolgimento delle normali mansioni quotidiane. La loro situazione di malattia comporta una modificazione dei ruoli e degli affetti all’interno della stessa famiglia. Rispetto ai ruoli, infatti, la situazione patologica così invalidante porta questi pazienti ad essere profondamente dipendenti dagli altri componenti del nucleo familiare, sia da un punto di vista materiale, sia da un punto di vista psicologico. Questo bisogno affettivo da parte del malato non sempre trova corrispondenze nella famiglia. Il malato vive il trapianto come una possibilità di rinascita, che può sconfiggere il fantasma di morte che pervade il suo inconscio. Il trapianto rappresenta quindi la possibilità concreta di tornare allo stato di salute, non solo fisica ma anche, e, in maniera significativa, psichica e sociale.
Quindi il trapianto è vissuto con grande speranza, accompagnata all’ansia dell’attesa. Ci sono però dei pazienti che presentano una condizione familiare o personale non propriamente positiva, dal punto di vista affettivo e psicologico. Sono pazienti che spesso sono scarsamente motivati al trapianto e quindi non in grado di integrare l’organo trapiantato come proprio. La scarsa motivazione al trapianto può compromettere significativamente l’operazione chirurgica.
La necessità di coinvolgere i pazienti e i loro familiari e l’attenzione alle emozioni nel processo di cura sono la conseguenza più evidente della straordinaria trasformazione in atto nella medicina moderna. Nei percorsi assistenziali, infatti, si sta passando gradualmente da un approccio fondato sulla malattia e sul modello “paternalistico” ad una medicina centrata sul paziente e sui familiari: questi ultimi vengono sempre più spesso coinvolti nel processo di cura e nella presa di decisione. In terapia intensiva e nel processo di donazione, una relazione terapeutica stabile e precoce ed una comunicazione efficace, unitamente alla gestione delle emozioni di tutti, rappresentano un importante fattore protettivo anche rispetto al rischio di errore.4
Nel processo di donazione, disporre di adeguate abilità non tecniche (non technical skills) è altresì fondamentale ai fini della sicurezza del donatore, del ricevente e degli stessi operatori. In area “critica”, la formazione ed il supporto psicologico degli operatori consentono di coniugare in un unico approccio assistenziale efficienza, qualità ed “umanizzazione” dell’assistenza.
I progressi scientifici e tecnici della medicina generano una costante ricaduta di problemi nuovi, a livello giuridico, etico e psicologico. Questi diversi livelli hanno spesso piani sovrapposti di riflessione comune, poiché tutti e tre si occupano della dimensione soggettiva degli individui. In particolare è funzione della psicologia in medicina la considerazione e tutela della soggettività delle persone che ricevono l’assistenza di un servizio sanitario, operando interventi di prevenzione e di cura del disagio e del malessere psichico che gli atti sanitari possono comunque produrre.
Per quanto riguarda la moderna terapia chirurgica dei trapianti, essa si fonda su una ben articolata integrazione di conoscenze scientifiche in continuo aggiornamento, di tecnologie avanzate e di comportamenti organizzativi complessi. Fra le maglie di questa macchina operativa esistono peraltro delle zone di emergenza di fattori di soggettività umana, cognitivi ed emotivi (spesso inconsci ed essenzialmente connessi con le angosce di morte) dipendenti dalla drammaticità degli eventi esistenziali in causa, che possono costituire delle vere e proprie aree di rischio psicologico nei trapianti d’organo e che sono:
Si tratta di punti nodali “nevralgici” che possono interferire, se trascurati, anche drasticamente con il progetto terapeutico del trapianto.
A trapianto avvenuto possono facilmente comparire sintomi di confusione mentale o di depressione, episodi psicotici, manifestazioni varie che attestano uno stato estremamente critico dell’equilibrio interiore del ricevente. Occorre dunque considerare con tutta l’attenzione possibile quella che i medici chiamano ‘psicologia del trapiantato’. Se infatti alcuni pazienti si appropriano dell’organo senza problema, altri possono invece aver bisogno di tempo per familiarizzare con l’idea del proprio corpo ricomposto, per accettare in sé la presenza di un terzo. Un trapiantato deve fare un’opera di ricostruzione, di riconoscimento di sé e del suo corpo, perché ora in esso v’è qualcosa che apparteneva a un altro. Inevitabilmente la personalità di colui che riceve un organo non rimane esattamente la stessa. E questo sia per la nuova consapevolezza di sé, sia perché ci vuole grande accortezza nel gestirsi.
Gli obiettivi di una assistenza psicologica nella fase pre-trapianto sono molteplici e vanno concettualmente distinti, anche se nella pratica si combinano in vario modo seguendo le esigenze cliniche. Tutti si fondano su un comune principio, ormai acquisito in modo consolidato: che una buona riabilitazione inizia prima dell’intervento chirurgico, non dopo. Prioritari sono da considerare gli interventi di sostegno psicologico ai pazienti per aiutarli ad affrontare il trapianto, poiché in genere le loro reazioni e le modalità di coping (cioè di far fronte agli eventi) sono già sufficientemente orientate all’intervento in modo adattivo.
Quando, dai colloqui e dall’esame psichiatrico, appaiono evidenti sintomi di ansia o depressione o turbe psicopatologiche, l’assistenza si orienta verso più decisi interventi terapeutici, di ordine sia psicoterapico (a livello individuale e/o familiare) sia psicofarmacologico. Affiancano questo lavoro di preparazione psicologica gli interventi che hanno lo scopo di aumentare il grado di informazione e di consapevolezza del paziente (e dei familiari) sulla realtà clinica del trapianto, sulla sua portata e sul programma terapeutico successivo, e insieme di accertarne le motivazioni, sia a livello cognitivo che emotivo.
Nel corso degli incontri con il paziente, e con i suoi familiari più prossimi, la consulenza psicologico-psichiatrica deve anche assolvere il delicato compito di giungere ad una valutazione selettiva ai fini dell’idoneità al trapianto, che si fonda sui seguenti parametri:
Sono considerate controindicazioni psichiatriche assolute: i gravi disturbi psichici (come le psicosi floride); l’insufficienza mentale grave; l’abuso e la dipendenza da sostanze o alcol; l’ideazione suicidaria attiva o stili di comportamento ad alto rischio; la mancanza di compliance terapeutica.5-6
Conclude questa serie di interventi pre-trapianto l’incontro con tutti i membri dell’équipe trapiantologica per la presentazione e la discussione collegiale del caso.
Oltre al colloquio che riveste un ruolo di particolare importanza diagnostica, si somministra la seguente batteria di test:
La letteratura ci mostra che il trapianto non è solo un intervento chirurgico, ma un iter complesso, in cui lo stress fisiologico e psichico straordinario pone sostanziali richieste ai processi adattivi del paziente e della sua famiglia, ed in ogni sua fase, dal momento della prima valutazione per l’intervento fino alla riabilitazione successiva, problemi psichici e psicosociali possono turbare l’adattamento del paziente e influire sul risultato terapeutico.
Nel periodo pre-trapianto sono dominanti i disturbi fisici della malattia ingravescente, il senso di incertezza e di minaccia per la vita, gli eventi di perdita ed i cambiamenti forzati nel lavoro e nell’ambito familiare e sociale. È tuttavia molto differente la situazione esistenziale ed il vissuto di malattia dei pazienti uremici terminali rispetto ai pazienti giunti alla fase terminale di altri organi vitali come cuore, fegato, polmoni. Per i pazienti nefropatici la terapia salvifica della dialisi dissocia il momento drammatico della conoscenza della malattia terminale dall’evento, altrettanto drammatico, del trapianto ed allontana la minaccia del pericolo di vita e l’angoscia della morte. Impone però ai pazienti una sofferenza (distress) psichica per lo sforzo di adattamento alle insolite condizioni esistenziali del trattamento dialitico.
Shock emotivo:
I pazienti affrontano una fase iniziale (i primi 3-6 mesi), caratterizzata da ansietà, disperazione, disorientamento e depressione, per la lesione grave irreversibile, l’allestimento della fistola artero-venosa e l’incontro con la macchina nelle sedute dialitiche.
La lotta per la normalità:
I pazienti, successivamente allo shock iniziale, cominciano un periodo in cui cercano di crearsi un nuovo equilibrio per la vita. Incontrano su questa via una serie di difficoltà, legate all’alterazione dell’immagine corporea, per la perdita della minzione e per la fistola, alla dipendenza dialitica inesorabile e ripetitiva, alle restrizioni dietetiche e idriche, ai cambiamenti e alle perdite di ruolo in ambito familiare, sociale, lavorativo, a deficit della funzione sessuale, all’angoscia di morte che permane latente ed alla coartazione delle possibilità di programmare il futuro.
Queste condizioni di stress psichico attivano emozioni profonde, intime e poco espresse, quali paura, umiliazione, sfiducia e svalutazione di sé, preoccupazioni ipocondriache, rassegnazione fatalistica e impotenza, e insieme rabbia e aggressività.
I pazienti vi reagiscono con modi di difesa psicologica a livello emotivo o cognitivo/comportamentale, come la negazione, la razionalizzazione, la regressione, l’introiezione o la proiezione, o con l’apparente indifferenza, la chiusura e l’isolamento e con quell’atteggiamento di coartazione psichica così frequente nei pazienti in dialisi definito “alessitimia” (secondaria) cioè incapacità ad esprimere le emozioni. Si tratta spesso di modalità difensive inadeguate, che esitano in una ricaduta di sintomi rilevabili sul piano psichiatrico, come ansia, depressione, insonnia. In particolare la depressione è la complicanza psicopatologica ritenuta più frequente nei pazienti in dialisi. Le stime della letteratura sono molto variabili, per la complessità dei sintomi in causa e la varietà degli strumenti di valutazione, ma mediamente confermano un’incidenza del 25-35% per la depressione moderata e del 10-20% per la depressione grave. Un’indagine su pazienti italiani segnala che la depressione è presente nel 55% e che, nell’87% dei casi, ha insorgenza precoce nei primi 6 mesi di dialisi. La depressione incide pesantemente su tendenze suicidarie e su comportamenti che riducono la sopravvivenza. Più in generale nei pazienti in dialisi e in attesa di trapianto è segnalata la presenza di diagnosi psichiatriche dall’11% al 33% con prevalenza di sintomi di tipo paranoide.
In questo contesto la prospettiva del trapianto renale si carica spesso di un’enfasi ideale di soluzione “magica” che può risolvere ogni sofferenza, ma, più spesso, assume un carattere di ambivalenza conflittuale tra desiderio di porre fine alla dipendenza dialitica e paura di affrontare un percorso di rischio e di incertezze a fronte di una condizione già conosciuta. Gli interventi di assistenza psicologica diventano qui essenziali per aiutare i pazienti a maturare una personale motivazione, consapevole, equilibrata e realistica, quale condizione preparatoria indispensabile per l’intervento.
Ben più drammatica è la condizione dei pazienti con insufficienza cardiaca, epatica o polmonare terminale, in cui si combinano in poco tempo gli esiti di uno stress cronico della malattia ingravescente con lo stress acuto della malattia terminale, i disturbi fisici spesso critici, che richiedono ricoveri d’urgenza, il senso di minaccia per la vita e la percezione del proprio decadimento e fragilità psichica.
A ciò si aggiunge l’effetto shock della comunicazione sulla necessità del trapianto, che costituisce un vero trauma e che dà inizio ad un vissuto di ambivalenza tra angosce di morte e speranze: occorre che il paziente elabori prima in qualche modo il lutto di morire, perché possa poi accettare “il rischio di vivere”.
Il processo è complicato dalla permanenza in lista di attesa, con la duplice prospettiva di morte/vita e con l’ansia che l’organo non arrivi in tempo: questo viene descritto da molti pazienti come il periodo più stressante mai sperimentato. Inoltre l’attesa di un organo ed il desiderio di sopravvivere (a spese della morte di un altro) causano sovente sentimenti di colpa, vissuti con sofferenza morale.7 Le più frequenti reazioni emotive di questa fase, incredulità, rabbia e rifiuto, sfiducia e disperazione (helplessness-hopelessness), paura-terrore e angoscia, sono solo parzialmente compensate da meccanismi di difesa come la negazione, la regressione, la razionalizzazione (i più comunemente riscontrati) ed esitano facilmente in sintomi di rilievo psichiatrico.
La letteratura recente conferma diffusamente l’alta incidenza di disturbi psichici nella fase pre-trapianto: di 311 candidati al trapianto di cuore, rene, polmone e fegato, più del 60% soddisfaceva i criteri diagnostici del DSM-III-R Asse I (sindromi cliniche) e quasi il 32% i criteri per i disturbi di personalità dell’Asse II.
Studi recenti hanno riconosciuto significative correlazioni tra aspetti psichici e psicosociali ed esiti post-trapianto, per più riguardi:
Perciò diventa importante una assistenza psicologica in questa fase, non solo per l’aiuto attuale ai pazienti, ma anche per riconoscere fattori di rischio su cui operare preventivamente.
La notizia che il trapianto avrà luogo causa una nuova cascata emotiva che prende l’avvio dal timore che possa accadere qualcosa (peggioramento delle condizioni, problemi burocratici) che impedisca l’intervento. I primi giorni dopo il trapianto sono anch’essi caratterizzati da una forte ambivalenza che nasce dalla contrapposizione tra gratitudine e paura del rigetto.
Se sorgono anche poche complicazioni il paziente entra velocemente in uno stato depressivo, inoltre è possibile che questo timore divenga una costante della vita futura. Il trapianto può mettere in discussione anche l’identità individuale che deve includere un organo nuovo nel proprio Sé. Incidenti di percorso in questo processo possono aiutare il rigetto dell’organo e causare disturbi dell’identità.
Per questo è fondamentale che i pazienti abbiano una profonda consapevolezza sia emotiva, sia cognitiva del trapianto, per migliorare l’adattamento alla nuova situazione.
La degenza in unità di terapia intensiva (UTI) con i postumi dello shock biologico e dello stress dell’intervento, il dolore, le condizioni di regressione e fragilità psichica, la perdita dei ritmi fisiologici, l’isolamento e la deprivazione sensoriale, rappresenta un periodo di forte sofferenza. Dal 2-3 giorno post-operatorio con notevole frequenza i pazienti soffrono di fenomeni psicopatologici, che possono esprimersi in quadri di ansia, irrequietezza, disorientamento, o più conclamati di delirium: stato confusionale, agitazione psicomotoria, allucinazioni, confabulazioni deliranti, affettività alterata. La frequenza di queste psicosi confusionali è indicata in percentuali molto variabili, che mediamente si collocano intorno al 20-40%.
Vi contribuiscono non solo cause biologiche (metaboliche, chirurgiche, farmacologiche) ma anche aspetti psichici di fragilità personologica dei pazienti, nonché la qualità della pregressa informazione e preparazione psicologica all’intervento e dei contatti interumani nell’UTI.
Con l’uscita dall’UTI, se l’evoluzione non ha complicazioni gravi, già nel corso dell’ulteriore degenza i pazienti sperimentano un netto miglioramento dello stato psichico: sentimenti di liberazione, di emotività intensa, talora di vera euforia, per essere sopravvissuti, fanno percepire l’evento del trapianto come una rinascita.
Ma già fin da ora comincia un vissuto di polarità oscillante tra speranze e paure, del rigetto, delle complicazioni, del futuro, che crea una condizione di incertezza esistenziale. Inoltre in questa fase sono particolarmente attivi pensieri e fantasie sulla persona del donatore deceduto, con sentimenti compositi di gratitudine e di colpa.
Sono, infine, diffusamente presenti, fino al 50%, nelle prime settimane del post-intervento sintomi organici cerebrali, con deterioramento cognitivo (attenzione, concentrazione, memoria) che possono permanere, sfumati, anche a lungo.
Con la dimissione i pazienti affrontano il ritorno al loro contesto familiare e sociale ed un periodo di adattamento alla vita di “trapiantato”, che generalmente si svolge nell’arco di sei mesi-un anno. Un riesame della letteratura dal 1970 al 1996 evince che la maggioranza degli studi dimostra un miglioramento statisticamente significativo delle funzioni fisiche e degli altri aspetti della qualità di vita dal pre al post-trapianto.8
Ciò appare confermato da più recenti ricerche sul trapianto di rene.
Nonostante il miglioramento delle condizioni fisiche e la riduzione del total symptom distress, rimane in letteratura la fondata evidenza di un malessere psicopatologico e psicosociale. In una ricerca sui trapianti renali la presenza di disturbi psichiatrici è risultata passare dall’11% di prima al 36% nei due mesi dopo il trapianto e sono stati trovati disturbi affettivi nel 46% dei trapiantati, con una più marcata instabilità psichica rispetto ai dializzati.
Questi dati trovano parziali spiegazioni nella considerazione che con la dimissione i pazienti si sentono privati della protezione dell’ospedale e sperimentano sentimenti di abbandono e di insicurezza, mentre sono esposti all’ansia di un riadattamento al mondo esterno. In modo apparentemente paradossale sono i pazienti renali a risentire con maggior frequenza di questi fenomeni, poiché con la cessazione della dialisi, talora durata anni, lasciano un vincolo sofferto di dipendenza ed insieme un punto di riferimento abituale e di rassicurazione. Inoltre i pazienti trapiantati, dopo la dimissione e nell’incontro con la realtà successiva, sperimentano delusioni nelle aspettative di “guarigione”, che trasformano l’euforia del periodo post-operatorio in crisi emotive di ansia e di depressione, con la progressiva consapevolezza della propria incertezza esistenziale e della permanenza nella condizione “di malato”. Questo conferma quanto è stato detto, che l’esperienza del trapianto costituisce una crisi psicosomatica che impegna le risorse bio-psico-sociali dei pazienti, e dei familiari, nel processo di adattamento all’organo trapiantato.
Ciononostante medici e familiari sollecitano, ed i pazienti fantasticano, il ritorno alla normalità. Ma quale “normalità”?
Per i medici è, in genere, l’immagine di un paziente trapiantato in discreto equilibrio fisico-psichico e con buona compliance a terapie e controlli.
Per i familiari è spesso il desiderio di un ritorno alla vita “di prima”, cioè senza la presenza della malattia.
E per i pazienti? Essi incontrano numerosi fattori di ostacolo ad una normalizzazione dell’esistenza, che qui presentiamo in sintetica rassegna:
L’esperienza di avere un organo di una persona deceduta turba l’immagine corporea che il ricevente ha di sé e il suo senso di identità personale. Per ricomporli occorre un processo di integrazione che dura nel tempo; una recente ricerca segnala che l’11% dei trapiantati pensa spesso al donatore deceduto e il 30% vorrebbe avere delle informazioni al suo riguardo. Il lungo lavorio di incorporazione psichica impegna sia i vissuti simbolici dell’organo trapiantato, sia i processi di identificazione con il donatore, deceduto. Questi effetti psichici - spesso intimi e inespressi - smuovono dinamiche arcaiche e angoscianti: crisi di identità, angosce di predazione, confronto con la morte (propria e del donatore).
Per quanto le situazioni segnalate siano all’origine di distress psichico, con turbe psicopatologiche o con disturbi dell’adattamento, tuttavia le ricerche sulla condizione psicosociale dei pazienti trapiantati dimostrano un deficit di interventi idonei. Non esistono, in molte sedi, programmi sistematici di riabilitazione psicosociale e l’attenzione delle istituzioni sanitarie risulta insufficiente. Ai fini di una migliore riabilitazione psichica e sociale dei trapiantati la letteratura concorde ritiene che lo sviluppo di interventi interdisciplinari sia uno dei compiti socio-sanitari e psicoterapici da programmare per il futuro.
Nella fase che segue la dimissione, inizia la vera e propria riabilitazione del paziente alla vita familiare, sociale e lavorativa. L’assistenza psicologica, per i problemi psichici personali e di vita familiare e sessuale, può avvenire secondo due modalità:
L’immagine corporea è il modo in cui una persona sperimenta e considera il proprio corpo. È il modo in cui il corpo ci appare. È qualcosa che si forma nella prima infanzia, si modifica per tutta la vita e varia nelle condizioni di salute e di malattia. Il corpo, quindi, è anche una costruzione mentale graduale e complessa. Nel trapianto, se da un lato l’intervento chirurgico ripristina il funzionamento anatomico e fisiologico in maniera rapida, dall’altro è necessaria una integrazione cognitiva ed emotiva ( “trapianto psichico” ) parallela, in quanto i significati simbolici attribuiti alle parti del corpo connotano le emozioni, le fantasie, e i vissuti di coloro i quali attraversano l’esperienza della malattia e del trapianto. In Italia, Giampiero Rupolo ha istituito il Servizio di psicologia medica per i trapianti che opera dal 1993 nell’Ospedale Molinette di Torino e che successivamente si è esteso nei centri trapiantologici più importanti d’Italia.
L’obiettivo di tale servizio è quello di definire e gestire le problematiche emotive che si collegano all’esperienza del trapianto, e in particolare di contribuire a recuperare quell’umanizzazione che pone al centro di ogni atto terapeutico la persona nella sua interezza.
In tale ambito i contributi offerti dalla psicosomatica fanno riferimento al complesso lavoro di ricostruzione mentale che il soggetto trapiantato deve compiere sulla propria immagine. Un difficoltoso processo di ricomposizione che permette l’accettazione e l’integrazione psichica del nuovo organo. Un aspetto fondamentale, quindi, risulta essere quello relativo al rapporto che intercorre tra il ricevente, la sua corporeità e l’organo trapiantato.
Nel percorso esperienziale del trapianto l’interezza e l’unitarietà dell’immagine corporea subisce una brusca alterazione: viene estirpata qualcosa che non funziona ma che è propria, che viene sostituita da qualcosa che funziona ma che è di qualcun altro. Tale processo di ricostruzione è lungo e difficoltoso e necessita di un lavoro di integrazione psichica o meglio di “accorporazione” dell’organo trapiantato. Secondo Castelnuovo-Tedesco (1981) nel processo di integrazione dell’organo si articolano tre fasi:
Il trapianto pone, quindi, il problema della integrazione fisica di un corpo estraneo, che viene acquisito simbolicamente nella sua interezza con tutte le caratteristiche del donatore. Da una parte il processo di “life-extending” crea una sorta di rinascita simbolica con aspetti euforizzanti, dall’altra si può sviluppare una sorta di vulnerabilità emotiva con disturbi della immagine corporea e della rappresentazione di sé, eventuali reazioni paranoidi o crisi di panico per la presenza di un oggetto estraneo (organo trapiantato) vissuto in modo persecutorio.