I tentativi di trapiantare organi e tessuti da un corpo all’altro hanno accompagnato la storia umana fin dall’antichità, ma solitamente si indica il 1902 come data di nascita della moderna trapiantologia. Fu allora, infatti, che Alexis Carrel, chirurgo francese trasferito a Chicago, inventò la tecnica che permette di collegare e suturare tra loro i vasi sanguigni, premessa indispensabile per effettuare qualsiasi tipo di trapianto d’organo, a eccezione di quello di midollo. Negli Stati Uniti, Carrel sperimentò diversi tipi di trapianti sugli animali, comprendendo molto presto che l’aspetto chirurgico era solo il primo dei problemi, giacché quello della interazione tra il nuovo organo e l’ospite risultava decisamente più complesso. Fu a metà degli anni trenta che le ricerche ricevettero nuovo vigore. Il merito si deve soprattutto a Peter Medawar, il quale scoprì che il problema dell’incompatibilità tra organismo ricevente e organo ceduto dipendeva da fattori genetici. Medawar dimostrò per primo la natura immunologica del rigetto. La barriera immunologica rimaneva infatti un enorme problema: così, se diversi interventi ebbero successo dal punto di vista tecnico, inevitabilmente si conclusero con il rigetto dell’organo trapiantato.
Il primo tentativo documentato di trapianto di rene da vivente fu effettuato nel gennaio 1951, a Parigi, da René Kuss che lo eseguì su una donna di 44 anni. Dopo l’intervento, la funzione renale venne immediatamente ripristinata, ma la quantità di urina rimase minima. A un mese dal trapianto, la donna sviluppò una grave ematuria, morendo alcuni giorni dopo. Un passaggio importante si ebbe nel 1952, quando il chirurgo e nefrologo francese Jean Hamburger, all’ospedale Necker-Enfants Malades di Parigi, trapiantò in un figlio un rene prelevato dalla madre. L’organo funzionò per ben tre settimane prima di essere rigettato. John Merrill (1917-1984), nel 1954, insieme al dottor Joseph E. Murray, eseguì a Boston il primo trapianto di rene da donatore vivente tra gemelli omozigoti. Il risultato sarà storico: il ricevente, infatti, sopravviverà per ben ventiquattro anni con il rene funzionante. Il decennio che seguì questo primo trapianto di rene effettuato con successo fu caratterizzato da un alto numero di interventi da donatore vivente. In questo senso, è necessario aver presente come, nelle fasi iniziali, la medicina dei trapianti abbia mosso i primi passi proprio grazie alla donazione da vivente.1
Nonostante i notevoli progressi della ricerca e della tecnica chirurgica, non più del trenta per cento dei pazienti riusciva a sopravvivere per più di un anno, come contributi scientifici, congressi internazionali e articoli non smettevano allarmati di ribadire. La svolta decisiva si ebbe nel 1972, quando Jean François Borel, ricercatore dell’azienda farmaceutica Sandoz a Basilea, scoprì un nuovo farmaco immunosoppressore: la ciclosporina. Si trattava di un principio attivo con effetto immunosoppressivo, utilizzato per modulare la risposta immunitaria dell’organismo. Il ritrovato si dimostrò in grado di bloccare specificamente l’attività dei linfociti T responsabili del rigetto, lasciando però inalterate altre difese immunitarie importanti per contrastare le infezioni. L’impiego clinico della ciclosporina modificò radicalmente la possibilità di successo dei trapianti di rene, di fegato e di cuore, portando le sopravvivenze post-trapianto oltre il 70%. Anche se vi saranno molti miglioramenti, è da questo momento che i trapianti iniziano a essere praticati su larga scala.
In Italia, il primo trapianto di rene da donatore vivente consanguineo fu realizzato nel 1967 al Policlinico di Roma; nel 1968, sempre all’Umberto I, fu eseguito il primo trapianto di rene da donatore non consanguineo. Fino al 1982, in Italia erano stati effettuati 52 trapianti di rene tra consanguinei e 6 tra non consanguinei. Tra l’ottobre 1982 e il marzo 2008 invece ne furono eseguiti 413 da consanguinei e 213 da non consanguinei.
Man mano che le tecniche e le conoscenze in termini di prelievo e di conservazione progredivano, e i trapianti erano ormai percepiti non solo dall’opinione pubblica, ma anche dai medici come una reale possibilità terapeutica, si produssero due effetti. Da un lato, contrariamente a quanto avvenuto nel decennio precedente, i trapianti da cadavere sopravanzavano numericamente quelli da vivente, grazie anche alla sollecitazione politica che spingeva in questa direzione.
Dall’altro lato, invece, esplose in tutta la sua gravità e impellenza il problema della carenza di organi disponibili. E così gli anni Ottanta videro il dramma della compravendita illegale di organi, fenomeno che raggiunse una diffusione mai conosciuta prima. Ciò fu conseguenza del concorrere di diversi fattori, tra i quali la mancanza di trasparenza nei processi di allocazione e la possibilità anche per molte cliniche private di effettuare i trapianti.
L’approccio tradizionale per la nefrectomia del donatore di rene è quello lombotomico2, attraverso una incisione sul fianco al di sotto dell’undicesima costa. Il paziente viene posizionato in decubito laterale, con il tavolo operatorio spezzato, al fine di estendere il fianco esposto. Per migliorare l’esposizione della loggia renale, soprattutto nei pazienti obesi, può rendersi necessaria l’asportazione dell’ultima costa. I muscoli latissimus dorsi, la porzione anteriore dell’obliquo esterno, l’obliquo interno ed il muscolo trasversale con la fascia trasversale vengono sezionati in modo da poter accedere allo spazio retroperitoneale, facendo particolare attenzione a non aprire la cavità pleurica né quella peritoneale. Si procede quindi con la dissezione della fascia di Gerota e del grasso perirenale, visualizzando la superficie del rene, senza tuttavia estendere la dissezione alla porzione ilare del rene, per non compromettere la vascolarizzazione ureterale. L’isolamento della vena renale richiede la sezione delle tributarie gonadica e surrenalica e, quando presente, della vena lombare, e si estende fino a raggiungere la vena cava. Al di sotto della vena renale si visualizza quindi e si isola l’arteria renale, prestando attenzione alla eventuale presenza di arterie renali polari o accessorie.
Prima della sezione dei vasi, è consigliabile procedere all’eparinizzazione del paziente, quindi si procede con la legatura dell’arteria e quindi della vena in modo da ottenere vasi più lunghi possibile, ma facendo attenzione nella sezione a lasciare una cuffia sufficiente a garantire una emostasi sicura. Il posizionamento di un drenaggio tubulare conclude l’intervento.
In alternativa alla tecnica lombotomica, alcuni Centri prediligono un approccio laparotomico anteriore, attraverso una incisione anteriore trasversa per via transperitoneale o per via extraperitoneale.
Si può ricorrere anche alla procedura laparoscopica che viene più frequentemente eseguita per via transaddominale, e viene definita “laparoscopica pura” quando tutto l’intervento viene eseguito attraverso strumenti laparoscopici, oppure “hand-assisted”, qualora il chirurgo introduca nella cavità addominale una mano al fine di rendere più agevole la mobilizzazione e la trazione del rene.
La nefrectomia del donatore vivente viene sempre più spesso effettuata con tecnica laparoscopica, ottenendo risultati simili alla tecnica standard lombotomica, sia per quanto riguarda la sicurezza del donatore, sia relativamente al successo del trapianto. Il vantaggio dell’utilizzo della laparoscopica è soprattutto correlato alla riduzione del dolore post-operatorio e ad una più rapida ripresa delle attività quotidiane e lavorative, oltre che ad un migliore risultato estetico. La possibilità di effettuare un intervento mini-invasivo può essere di incentivo alla donazione di rene da vivente, il che risulta particolarmente importante nel contesto di carenza di organi da donatore cadavere.3
Il trapianto è oggi una procedura terapeutica salvavita o comunque in grado di migliorare sensibilmente la vita di pazienti affetti da insufficienza d’organo grave non altrimenti curabile. Il monitoraggio dei risultati dei trapianti è la tappa conclusiva di un lungo processo che ha inizio con l’identificazione del donatore, la valutazione di idoneità, il mantenimento di una buona funzione degli organi ed il prelievo, continua con l’assegnazione degli organi, la valutazione del paziente, l’intervento chirurgico ed il follow-up del ricevente. Ogni singola fase contribuisce alla realizzazione dell’biettivo finale e deve essere gestita secondo modelli che rispettino il sistema di assicurazione della qualità.
Il monitoraggio dei risultati costituisce l’ultima ma non meno importante fase del processo prelievo-trapianto. Tale monitoraggio deve essere realizzato attraverso la raccolta sistematica dei dati relativi agli organi ed ai pazienti trapiantati in un archivio dedicato. L’analisi dei dati completerà poi questa fase del processo e sarà tesa a mettere in evidenza le variabili che influenzano i risultati, siano esse del donatore, del paziente o dell’intervento di trapianto. Il principale obiettivo dell’analisi dei risultati è quello di effettuare un monitoraggio della quantità e della qualità dell’attività svolta, di registrare le complicanze e di confrontare i dati con quelli dell’esperienza internazionale. La raccolta sistematica in registri dei dati prodotti nei singoli centri trapianto ha consentito in questi anni di raccogliere un gran numero di informazioni sull’attività trapiantologica ed in molte realtà i registri sono diventati un vero strumento di programmazione, controllo e miglioramento del sistema.
La gestione di un registro dati sull’attività di prelievo e trapianto è un’attività non semplice, che richiede professionalità di chi lo gestisce, la fattiva collaborazione dei centri partecipanti e un costante controllo della qualità dei dati raccolti. Fondamentale è stabilire gli obiettivi del registro, cioè quali dati ci si propone di raccogliere e con quali finalità. A questo proposito va ricordato che oggi descrivere il successo del trapianto solo in termini di sopravvivenza a medio o lungo termine dell’organo o del paziente è certamente riduttivo, mentre si rende necessaria la raccolta di informazioni più dettagliate relative alla qualità di vita dei pazienti trapiantati, agli aspetti psicologici ed il grado di reinserimento nella vita sociale. Il registro deve inoltre essere un’entità dinamica, cioè in grado di cogliere e analizzare i cambiamenti del programma, attraverso la definizione di indicatori di risultato variabili nel tempo e la costante verifica dei criteri utilizzati e delle variabili studiate. La collaborazione dei centri che forniscono i dati non può essere acquisita d’autorità, ma deve essere basata sulla condivisione delle finalità scientifiche e deve essere incentivata in varie forme, anche economiche. Solo in questo modo il registro può rappresentare un vero strumento sul quale basare il controllo e la programmazione dell’attività, o per mezzo del quale definire l’accreditamento dei centri.
Nel trapianto di rene i risultati a breve termine sono migliorati costantemente nel corso degli ultimi 20 anni; meno brillanti, invece, i risultati nel lungo periodo. Un recente confronto dei outcome riportati in Europa e negli Stati Uniti fornisce i seguenti dati: i tassi totali di sopravvivenza a 5 e 10 anni dal trapianto sono, rispettivamente, del 77% e del 56% in Europa, del 67% e del 43% negli USA. Schematicamente: metà dei riceventi muore con il trapianto funzionante, mentre un’altra metà perde l’organo per cause diverse. Secondo gli autori di una review presentata su Transplant International sono molte le possibili spiegazioni per questa discrepanza: il crescente utilizzo di criteri espansi nell’accettazione dei donatori, il generale invecchiamento della popolazione beneficiaria, la complessità delle ragioni alla base della disfunzione cronica del trapianto e, non ultima, la persistente difficoltà nel trattare in modo efficace il rigetto cronico.
Fattori che sono in grado d’ influenzare la prognosi a lungo termine:
al momento del trapianto di rene, a livello individuale, alcune caratteristiche del donatore e del ricevente impatteranno sui risultati di lungo periodo.
Lo studio conclude che, qualunque siano gli strumenti di valutazione e i punteggi ottenuti, definire con precisione le caratteristiche del donatore e, contemporaneamente, la “qualità” del rene da trapiantare, è senza dubbio il metodo più efficace per fare previsioni a lungo termine.
Più difficile da stabilire è, invece, il ruolo delle attuali combinazioni di farmaci immunosoppressori che offrono certamente una protezione nei confronti di un possibile rigetto ma sono gravati da importanti effetti collaterali: vi è quindi l’urgente necessità di ottenere agenti immunosoppressivi altrettanto efficaci ma meglio tollerati.4
La nefrectomia del donatore presenta un rischio contenuto di complicanze chirurgiche, con sporadiche segnalazioni di complicanze maggiori ed una modesta incidenza di complicanze lievi (7.2%), e riteniamo importante sottolineare che i fattori di rischio correlati allo sviluppo di tali complicanze sono, oltre a quelli generici quali l’obesità, l’abitudine al fumo e l’età avanzata, specificamente correlati al volume di attività del Centro: infatti, da un’analisi su oltre 3000 pazienti negli USA, è stato rilevato che soltanto i Centri con basso volume di attività presentavano un rischio significativo di complicanze chirurgiche. Il confronto tra le diverse tecniche chirurgiche ha evidenziato un maggior rischio di complicanze gastrointestinali (occlusione intestinale, pancreatite, lesioni intestinali) nei donatori con tecnica laparoscopica, mentre la tecnica open ha comportato un rischio aumentato per complicanze polmonari (atelettasia, pneumotorace) e tromboemboliche (trombosi venosa profonda, embolia polmonare, tromboflebiti). Numerosi autori hanno confrontato i risultati a breve e a lungo termine nei donatori sottoposti a nefrectomia con tecnica open e laparoscopica e vi è un generale consenso nel ritenere la tecnica laparoscopica altrettanto sicura per il donatore di quella tradizionale, con il vantaggio di una riduzione del dolore post-operatorio e cronico, dell’ospedalizzazione e dei tempi di recupero delle normali attività lavorative e della vita quotidiana, oltre ad un risultato estetico più soddisfacente.
I fattori tecnici che maggiormente possono influenzare la qualità dell’organo e quindi il risultato del trapianto renale sono la lunghezza dei vasi renali, la durata dell’ischemia calda, la lunghezza e la vascolarizzazione dell’uretere, e l’eventuale effetto dello pneumoperitoneo sul flusso renale nel caso di utilizzo di tecnica laparoscopica. La scelta del rene sinistro è vantaggiosa per quanto riguarda la lunghezza della vena renale, mentre la nefrectomia destra viene effettuata quando motivi anatomici o funzionali rendano preferibile non utilizzare il rene sinistro. Questo è ancora più generalmente accettato quando la tecnica di prelievo è quella laparoscopica, poiché la sezione dei vasi renali effettuato con la endo-GIA provoca un accorciamento dei vasi di circa 1.5 cm. Va però riconosciuto che, nonostante precoci esperienze abbiano riportato un’aumentata incidenza di complicanze trombotiche, molti Centri eseguono la nefrectomia destra laparoscopica. La tecnica hand-assisted presenta il vantaggio di ridurre il tempo operatorio, la durata dello pneumoperitoneo e la durata dell’ischemia calda, inoltre, la curva di apprendimento per tale tecnica è significativamente più corta rispetto a quello della laparoscopia pura. Tuttavia, diversi studi di confronto tra la tecnica laparoscopica pura, quella hand-assisted e la tradizionale lombotomica o mini-laparotomica non hanno evidenziato differenze relativamente ai risultati del trapianto, sia in termini di ripresa funzionalità, sia di livelli di funzionalità renale, nel breve e nel lungo termine.
Quasi tutte le malattie che colpiscono il rene nativo possono recidivare nel rene trapiantato, con l'eccezione della sindrome di Alport, della tubulodisplasia policistica e della nefrite interstiziale cronica. La glomerulosclerosi focale (GSF) e l'ossalosi primitiva, recidivano frequentemente nel rene trapiantato. Sebbene la precisa eziologia sia sconosciuta, esistono prove che alcuni fattori circolanti nel ricevente possano giocare un ruolo importante nella recidiva della GSF. Infatti il rischio di ricorrenza della GSF con il primo trapianto renale oscilla tra il 30 ed il 50%. Nei pazienti che per recidiva della GSF hanno perso il primo trapianto, il rischio di recidiva nel secondo raggiunge il 60-80%. Pertanto il trapianto da donatore vivente in questi pazienti dovrebbe essere utilizzato con estrema cautela. L'associazione tra elevato rischio di recidiva della malattia nel ricevente di rene da donatore vivente imparentato e specifiche nefropatie è stata notata per la nefropatia ad IgA e la glomerulonefrite membranosa. La ragione di questa associazione non è ad oggi nota, ma può essere correlata ad una predisposizione genetica.
Nel caso della nefropatia ad IgA, sebbene siano state osservate recidive sino nell'80% dei riceventi di rene da donatore vivente imparentato, il rischio di perdere il rene è meno del 10% nel primo anno dopo il trapianto. Perciò in questo caso il trapianto da donatore vivente non è controindicato. Nel caso della glomerulonefrite membranosa, da alcuni autori è stata osservata la recidiva nel 50-60% dei trapianti di rene da donatore vivente imparentato con buona compatibilità, spesso entro i primi tre/quattro mesi dopo il trapianto. Tuttavia poiché questa casistica è limitata come quantità, è difficile definire il rischio di recidiva in questo caso e quindi il trapianto non è controindicato. Ciò nondimeno il ricevente dovrebbe essere informato del rischio di recidiva della nefropatia.