Come per ogni elemento relativo al fitness e all'allenamento con i pesi, anche la questione dei microcarichi è capace di destare non solo grande interesse ma, soprattutto, grandi diatribe tra i sostenitori di tale metodica e quelli che la ritengono inutile.
Allo stesso modo, ogni volta che vi è un punto di disaccordo, solo i riscontri scientifici e le spiegazioni logiche possono fornire gli elementi per dirimere la questione sebbene, malgrado tutto, anche di fronte alle evidenze permarranno delle sacche di resistenza arroccate su usi e consuetudini che non hanno una reale giustificazione, spesso difese con il classico "io l'ho fatto e funziona".
Prima di addentrarsi nell'analisi è necessario fare due premesse: la prima di ordine lessicale, in questo articolo si fa riferimento
al "carico" inteso come "quantità di peso utilizzato" (il carico in senso generale è modulabile mediante numerose variabili, non è dunque sinonimo
di "peso" o di "entità delle resistenze", come invece viene fatto qui di seguito).
La seconda premessa è ancor più necessaria per circoscrivere l'ambito nel quale si esamina la valenza o l'inutilità dei microcarichi, ossia quello
del fitness propriamente detto, inteso come ambito allenante finalizzato al miglioramento della performance di tipo atletico/sportivo e con le eventuali
ricadute di tipo estetico. È quindi da escludere l'ambito terapeutico, riabilitativo, o di trattamento delle limitazioni funzionali dovute
all'età o ad eventi traumatici che, sebbene con esclusivo riferimento ai dati oggettivi possa essere incluso per deduzione, si è preferito in ogni
caso di non considerare.
Allo stesso modo sono esclusi soggetti completamente sedentari che approcciano per le prime volte ad un allenamento con resistenze, in questo
caso infatti il concetto di microcarico è del tutto relativo e, in termini percentuali, può rappresentare uno stimolo idoneo in una primissima fase
di lavoro. Il termine stesso di microcarico in quest'ultimo caso è tecnicamente errato, poichè l'impiego dei microcarichi fa riferimento ad una
progressione di piccolissima entità nelle resistenze impiegate in allenamento, e non all'utilizzo in senso assoluto di piccoli carichi. Inoltre
buona parte delle ricerche scientifiche effettuate e proposte in letteratura come supporto alla teoria dei microcarichi è stata eseguita su un
campione di persone non allenate, quindi con margini di miglioramento enormi e meglio rispondenti a progressioni di lieve entità, più affini ad
una prima stimolazione e adattamento da parte del sistema nervoso.
Il sistema dei microcarichi è probabilmente tra i più antichi in assoluto, tanto da affondare le sue radici nel mito di Milone di Crotone del quale si narra trasportasse sulle spalle un vitello per aumentare la propria forza, e man mano che il vitello cresceva (evidentemente di pochissimo ogni giorno) il carico aumentava e progressivamente cresceva anche la forza dell'atleta.
In tempi più recenti molte metodiche di allenamento si sono rifatte (o apparentemente sono affini) al principio dei microcarichi, ad esempio con il principio del 5% di Poliquin, il metodo Faalev, ecc.
In linea teorica il sistema dei microcarichi è una modalità applicativa del principio del sovraccarico progressivo o della progressione dei carichi, noto e applicato in tutte le possibili varianti e il cui primo studio è correlato alle ricerche del medico Thomas DeLorme, in servizio presso l'esercito americano verso la fine degli anni '40.
Metodi per incrementare l'intensità del lavoro in modo progressivo ve ne sono diversi, ciascuno con caratteristiche e adattamenti differenti, ad esempio l'incremento delle ripetizioni, l'incremento delle serie, l'incremento del ROM o il miglioramento della tecnica esecutiva, l'incremento del numero di esercizi per il singolo distretto anatomico, la riduzione dei tempi di recupero, l'incremento del TUT e, ovviamente, l'aumento più o meno consistente del peso utilizzato.
La ragione che risiede dietro la necessità di incrementare i carichi è nota a chiunque, una volta che si è realizzato un determinato adattamento allo stimolo non vi saranno ulteriori progressioni senza una variazione incrementale dello stimolo stesso1.
Secondo il principio dei microcarichi ad ogni sessione settimanale di lavoro il peso utilizzato per uno o più esercizi (normalmente esercizi di base o fondamentali) andrebbe aumentato di pochissimo, ad esempio di un solo Kg o anche molto meno, sino a raggiungere una performance di vertice o il risultato desiderato.
Il sistema dei microcarichi ha una serie di limiti che sono frutto di errori di percezione/valutazione, oltre che del fascino connesso col suo funzionamento teorico. Si confonde infatti l'aspetto cognitivo con quello che è lo stimolo fisiologico indotto. La struttura muscolare e gli elementi nervosi che determinano l'espressione della forza si adattano agli stimoli, e del resto il processo stimolo/adattamento sono alla base di qualsivoglia miglioramento della prestazione.
L'incremento di peso utilizzato mediante l'applicazione di un microcarico viene gestito senza problemi dalla muscolatura proprio perchè la differenza è talmente impercettibile che non compromette in alcun modo gli equilibri esistenti, ma la perturbazione degli equilibri è la sola ragione per la quale il corpo reagisce e quindi crea un nuovo adattamento, ad esempio un aumento di forza. Questa semplice considerazione dovrebbe essere sufficiente sia a spiegare l'inefficacia del metodo che a comprenderne le ragioni.
Facendo un esempio pratico, ipotizzando di compiere uno squat con 70Kg per 8 ripetizioni, passando da 70Kg a 75kg in maniera repentina, l'incremento sarà tale da non consentire l'esecuzione di 8 ripetizioni. Secondo il principio dei microcarichi si può ottenere un incremento di forza aumentando di un 1kg il peso utilizzato in ciascuna nuova seduta di allenamento. Ipotizzando un lavoro in monofrequenza si tratta di un incremento settimanale di 1kg. Passando da 70Kg a 71Kg è verosimile che non ci saranno problemi a chiudere le 8 ripetizioni, e non ci saranno problemi perchè l'entità del carico, e quindi lo stimolo, è fondamentalmente uguale a quello della settimana precedente. Se lo stimolo è fondamentalmente uguale, non c'è ragione per la quale si debbano produrre nuovi adattamenti in termini di ipertrofia o di reclutamento delle fibre, quindi un miglioramento della performance.
La medesima cosa tenderà a ripetersi anche per una o due settimane successive, fin tanto l'incremento del carico non diviene significativo rompendo gli equilibri e costringendo ad un nuovo adattamento, esattamente quello che sarebbe accaduto con un incremento repentino e più marcato adottando un altro metodo di lavoro.
Non a caso l'allenamento della forza prevede di procedere in modo alterno e non simultaneo verso l'incremento del volume e dell'intensità.
Una delle tante possibili obiezioni chiama in causa la corretta esecuzione del gesto, asserendo che l'uso dei microcarichi non compromette l'esecuzione e garantisce un corretto gesto tecnico.
Questa osservazione rischia di aprire un capitolo ancora più ampio e complesso, in primo luogo perchè occorrerebbe analizzare quale è la corretta esecuzione di un esercizio quando si parla di lavoro con i sovraccarichi. In secondo luogo occorrerebbe chiedersi quale sia la necessità di attenersi in modo assoluto alla migliore esecuzione possibile al fine di avere un risultato in termini di performance. Senza scadere in esecuzione e gesti che possono arrecare situazioni spiacevoli o traumatiche, se l'obiettivo è un aumento di forza o un aumento del volume, e posto che si possa ottenere con una esecuzione che non sia da manuale ma che non comprometta la funzionalità organica, è giusto ritenere che la variazione rispetto all'esecuzione corretta sia un errore inaccettabile?
Limitandosi a ritenere quest'ultima domanda una mera provocazione, occorre ricordare che esistono specifiche tecniche di allenamento che prevedono questo genere di esecuzione (ad esempio: cheating), così come passando dall'ambiente teorico a quello che è riscontrabile nelle palestre, la quota di atleti evoluti o dilettanti che esegue in allenamento un lavoro perfetto rappresenta una quota (purtroppo) marginale, ma questo è un altro discorso.
In ogni caso, anche volendo ignorare la precedente provocazione, l'uso dei microcarichi, posto che funzioni in termini adattativi, riduce ad ogni sessione di allenamento l'entità del buffer e, inducendo a lavorare sempre al limite, non permette l'acquisizione di quel livello di sicurezza e padronanza del gesto che eviterebbe invece degli errori. L'entità del buffer sugli esercizi di base è un elemento fondamentale negli incrementi di forza, l'aspetto lattacido è invece prioritario negli adattamenti di volume, e sarebbe pertanto più efficace uno stimolo causato da una ripetizione in più che da un Kg aggiuntivo, anche in termini di volume di lavoro. Non è un caso che lo stesso McRobert (fautore dei microcarichi) indichi la "progressione doppia", da realizzare proprio con aumento delle ripetizioni quando non è disponibile la possibilità di incrementare i microcarichi secondo la progressione desiderata.
Riprendendo brevemente quanto affermato poco prima in relazione alla corretta esecuzione del gesto e alla necessità di uno stimolo che possa produrre un adattamento, se il carico dovesse aumentare ogni settimana e la sua entità, per quanto piccola, potesse produrre un adattamento in termini di forza, significherebbe lavorare sempre al limite delle proprie capacità, poichè il numero delle ripetizioni resta invariato, il buffer risulta sempre minore con una tecnica che peggiora ogni volta a causa di un lavoro sempre più vicino al cedimento e una compromissione anche del grado di sicurezza nel corso del lavoro.
Passando da considerazioni soggettive ad altre maggiormente fisiologiche, un lavoro sempre prossimo al cedimento determina un affaticamento enorme da parte del sistema nervoso con un elevato rischio di overtraining e quindi compromissione della performance. Non è un caso che il lavoro in negativa che stimola enormemente la forza, viene applicato solo per brevi periodi (poche settimane), ma l'impiego dei microcarichi per poche settimane determinerebbe una variazione tecnicamente non significativa poichè in 2-4 settimane l'incremento totale (in termini assoluti) sarebbe solo di 2-4Kg, quota "facilmente" incrementabile fin da subito un'unica volta (compromettendo il parametro delle ripetizioni) in attesa di un conseguente adattamento in termini di forza. Del resto anche con l'ausilio dei microcarichi la reale percezione dell'incremento giungerebbe intorno alla quarta settimana, tecnicamente sarebbe come aver incrementato in un colpo solo l'entità del carico, e l'adattamento organico partisse da quel momento in avanti, con uguale e temporanea compromissione delle ripetizioni totali.
L'aumento della forza inoltre non procede in modo lineare poichè esauriti gli adattamenti nervosi occorrerà stimolare
quelli plastici, per poi ripartire da quelli nervosi2 e così via sino a raggiungere quelli che sono in ogni caso i
limiti fisiologici
di ciascuno.
Questo elemento agevolmente chiarisce strong>un altro dei punti deboli nell'applicazione spicciola dei microcarichi<. Nel senso che se fosse un
sistema realmente adattativo allora occorrerebbe affermare che, anche senza raggiungere livelli estremi di incremento della forza, nel giro di 20 settimane
ciascun atleta, anche di vertice (a patto che non abbia mai utilizzato prima tale sistema) debba veder crescere i suoi massimali di 20kg. Elemento
che si scontra rapidamente con la realtà dei fatti.
In alternativa si può affermare che il principio dei microcarichi permette incrementi lineari per periodi più brevi, seguiti dalla stabilizzazione dell'incremento, per poi far seguire un nuovo incremento lineare. Ma tale modalità di miglioramento della forza è quella tipica di qualsiasi metodica specifica di lavoro. E sempre all'interno della propria capacità massima di adattamento.
Di calcoli teorici come quello di cui sopra se ne possono fare tanti, anche con l'impiego di microcarichi ancora più piccoli, di solo mezzo Kg a settimana. Ipotizzando un soggetto leggermente allenato, capace di 10 ripetizioni in panca piana con 50kg totali (bilanciere incluso), nel giro di poco più di 5 anni dovrebbe poter eseguire il medesimo lavoro con 200Kg.
Il punto è sempre il medesimo, lievi incrementi possono essere sostenuti senza problemi perchè il muscolo (per usare un gergo comune) "non li sente", ma fin tanto il muscolo non comincia "a sentirli" non si adatta al nuovo stimolo, pertanto è perfettamente inutile.
Non solo ma, come se non bastasse, il reale miglioramento richiede una fase di assestamento dello stimolo3, fase che può durare anche diverse settimane in virtù del grado di allenamento ed entità degli adattamenti già avvenuti. Continui incrementi inoltre espongono a quella che è la terza fase della sindrome generale di adattamento4, quella che segue le fasi di allarme e di adattamento: la fase di esaurimento, ossia quella tappa in cui il protrarsi di allenamenti troppo duri senza un recupero adeguato (che permetta anche l'assestamento) impedisce ulteriori miglioramenti.
Non è un caso che numerosi studi5 suggeriscano l'incremento del carico nel momento in cui il numero di ripetizioni massime eseguibili con un dato peso diviene di una o due ripetizioni superiore rispetto al target di riferimento. Fermo restando l'esistenza di metodiche differenti che sfruttano il principio di incremento del peso.
L'impiego dei microcarichi trova applicazione, perlomeno sotto il profilo teorico, oltre che per allenamenti finalizzati all'incremento della forza, anche nei lavori per il volume muscolare. Lo stimolo alla crescita ipertrofica è fortemente connesso con l'attivazione del sistema anaerobico lattacido, pertanto con un numero di ripetizioni relativamente alto per ciascuna serie di un dato esercizio.
In questa direzione il metodo del 5% di Poliquin prevede per ciascuna sessione di lavoro svolto in monofrequenza, di incrementare il carico del 5%, eseguendo però una ripetizione in meno e una serie in più per ciascun esercizio nel quale si adotta tale sistema.
Questo metodo può avere una validità quando la quota del 5% si traduce in una variazione consistente anche in termini assoluti, se la variazione percentuale è costante ma la variazione assoluta è di piccola entità (es. 1 o 2 Kg) non solo l'entità della variazione non è percepita, ma si rischia una significativa riduzione del volume ed uno stimolo all'adattamento insufficiente. Esistono anche studi specifici relativi a incrementi prossimi a 0,5Kg che denotano la sostanziale inefficacia del metodo6, tradotto in termini assoluti (e con specifico riferimento allo studio citato), per carichi uguali o inferiori a 10Kg, l'incremento sino al 5% del carico non produce alcun adattamento.
A questo punto però la domanda che sorge spontanea è se si possa ritenere il principio del 5% di Poliquin un sistema connesso con i microcarichi, idem per quote percentuali inferiori e comprese tra il 2,5% e il 5% di incremento, range ritenuto idoneo7, efficace e anzi da non superare in termini di incremento prima di aver realizzato una stabilizzazione dell'adattamento prodotto.
Un incremento del 5% su un carico di 10Kg, è pari a 0,5Kg aggiuntivi, certamente riferibile come microcarico. Ma un uguale incremento percentuale su 100Kg, diventa di 5Kg aggiuntivi, quota che non è più possibile definire un microcarico (la progressione di 5Kg in più ogni settimana è a tal punto fuor di logica che non richiede spiegazioni), tecnicamente neppure quote percentuali del solo 2,5% partendo da un peso di 100Kg sono più definibili microcarichi da applicare in modo progressivo settimana dopo settimana.
Quindi l'uso di quote percentuali apparentemente piccole non ha nulla a che vedere con la definizione propria di microcarichi, che andrebbero invece considerati solo con riferimento a variazioni assolute pari o inferiori a 1Kg.
Ne consegue che il metodo di Poliquin del 5% funziona, ma non può essere ascritto ai microcarichi nè è ipotizzabile un incremento del 5% ad ogni successiva stimolazione settimanale.
Anche il sistema Faleev è spesso associato con l'impiego dei microcarichi, in realtà l'autore del metodo parla di incrementi ben più consistenti (dai 2,5Kg ai 5Kg) da applicare quando, partendo con un peso che permette di realizzare un 5 set x 8 ripetizioni, si riesce a chiudere il lavoro con una certa facilità. Questo però altro non è che il rispetto della sequenza stimolo/adattamento/consolidamento/progressione già esaminato e descritto. Inoltre l'autore fa riferimento agli esercizi fondamentali della pesistica. È evidente che la descrizione dettagliata del metodo è ben più lunga, questa precisazione ha il solo scopo di portare una ulteriore testimonianza che la progressione del carico e l'uso dei microcarichi non sono dei sinonimi.
Occorre mettere in fila i dati oggettivi sin qui esposti per poter trarre le dovute conclusioni. Anzitutto è possibile parlare di microcarichi in relazione ad un aumento di peso pari o inferiore a 1 Kg, in considerazione di un rapporto stimolo/risposta nullo per incrementi pari o inferiori a 0,5Kg8 il range si restringe a un intervallo compreso tra 0,5Kg e 1Kg entro il quale esiste uno stimolo adattativo.
Considerato che, secondo il principio della progressione dei carichi e secondo quanto esposto anche dall'ACSM9, la variazione ottimale dovrebbe essere compresa tra il 2,5% e il 5% tutte le volte che l'applicazione dei microcarichi avviene rispetto ad un esercizio normalmente gestito con meno di 41Kg inizia a divenire efficace sotto il profilo della stimolazione quando il microcarico non è più definibile come tale.
Contemporaneamente diviene impossibile proseguire la progressione (anche ma non solo) per il superamento del tetto del 5% nel giro di poche settimane (mediamente meno di 3).
L'efficacia su soggetti principianti/intermedi è evidentemente maggiore, ma anche in questo caso occorre porsi le domande corrette per non avere risposte fuorvianti. A parità di altri fattori applicando una percentuale del 5% al carico utilizzato da soggetti principianti/intermedi o intermedi/avanzati si otterrà un risultato differente in termini assoluti, con carichi minori nel primo gruppo e quindi più simili al concetto dei microcarichi. Non sono quindi i microcarichi ad essere più idonei per i principianti, ma i principianti a non potersi relazionare con carichi differenti.
Infine non è neppure del tutto corretto ritenere i microcarichi inutili tout court, l'applicazione in multifrequenza associata ad una buona applicazione del TUT può certamente indurre degli adattamenti, ma non secondo la fantomatica e infinita progressione con la quale il metodo viene proposto.
Infine qualche parola è da spendere su questo modo di dire che spesso sostituisce l'ipse dixit (del quale ho già avuto modo di scrivere).
"Io l'ho fatto è funziona" è una affermazione spiazzante perchè lascia poche possibilità di replica. In linea teorica ciascuno ha fatto qualcosa che, più o meno in buona fede, ha funzionato. Appare evidente che per ogni persona pronta ad affermare che qualcosa fatto in un modo ha funzionato, ci sarà sempre qualcuno che può affermare di aver fatto esattamente l'opposto e con il medesimo risultato. È per questo che la scienza non si avvale delle opinioni, delle consuetudini o delle singole testimonianze, e ogni elemento voglia essere ritenuto scientifico deve essere dimostrabile e ripetibile.
In passato per l'influenza veniva in soccorso il brodo di pollo, e c'è da scommetterci che fossero moltissimi ad affermare che dopo averlo bevuto erano stai meglio o erano perfino guariti, tuttavia da quando conosciamo l'esistenza dei virus sappiamo anche che neppure il miglior brodo di pollo potrà svolgere alcun effetto terapeutico, così come nessuno (almeno ci si augura) continua a difendere una simile terapia dicendo "io l'ho fatto e funziona".