Grassofobia: la risposta sbagliata a un problema distorto!

Di Pierluigi De Pascalis

L'italiano guarda gli esami del sangue, ma alla fine non cambia abitudini perché “tanto è solo un asterisco, si vive una volta sola”. Invece no, si muore una volta sola, ma si vive e si scegli tutti i giorni che precedono la dipartita.

Non amo parlare di uno stesso tema due volte, anche se dall’ultima sono trascorsi 7 mesi, ma in alcuni casi temo non sia possibile farne a meno.

Risale allo scorso febbraio la storia dell’arbitro donna che ha deciso di dimettersi perché “stanca di essere pesata come le vacche” (sue testuali parole).
Tutte le maggiori testate giornalistiche si sono interessate del caso, hanno fatto seguito gli indignati in servizio permanente presenti sui social, i paladini del politicamente corretto, e naturalmente un noto programma televisivo che in passato era stato amplificatore di una delle peggiori truffe ai danni dei bambini malati, facendo credere che un sedicente guru disponesse di un “metodo” per la loro guarigione.
La stessa trasmissione che anni prima aveva lasciato credere che i tumori potessero essere guariti con centrifugati di verdura o con veleno di qualche animale esotico. E ancora, la stessa trasmissione che aveva reso celebre un personaggio secondo cui il digiuno (a patto che fosse un digiuno di marca e pagato) sarebbe stato un elisir di lunga vita.
Dal digiuno alle abbuffate va tutto bene in nome, e sulla pelle, dell’audience.

Ascoltata la versione semplificata della storia, tutti sulla difensiva, tutti a dire che non è possibile essere retrocessi o contestati o giudicati “per qualche cm” in più o per “qualche Kg di troppo”. Che poi, da bravi Italiani, è quello che diciamo sempre quando riceviamo una multa: se il limite è a 110Km/h e percorrevamo a 117Km/h la frase tipica è “ho preso una multa… ma solo per 7Km ”. È anche la stessa frase che ripetevamo a scuola quando venivamo bocciati per un 5 di troppo, “sono stato bocciato, ma solo per un voto”. Se ci pensiamo bene è anche quell’unico numero di differenza che ogni volta manca per svoltare con l’ennesimo gratta e vinci, esce un 18 e avevamo il 17: “per un numero non sono diventato milionario”.

L’italiano è così, si gioca il reddito di cittadinanza dal tabaccaio perché non è capace di individuare la complessità delle cose, il valore statistico che risiede dietro “un numero” al gratta e vinci. Figurarsi spiegargli cosa implica qualche Kg in più, oltre un limite che già ne prevede! L’italiano guarda gli esami del sangue, ma alla fine non cambia abitudini perché “tanto è solo un asterisco, si vive una volta sola”. Invece no, si muore una volta sola, ma si vive e si scegli tutti i giorni che precedono la dipartita.

Ora, il regolamento per gli arbitri di pallavolo prevede (dalla stagione 2017/2018) che debbano restare sotto uno specifico valore in termini di Indice di Massa Corporea, e sotto un preciso limite in termini di circonferenza addominale. Limite che in realtà era previsto già da oltre 10 anni per gli arbitri federali di serie A, il tutto derivante dal recepimento di quanto previsto dalla Federazione Internazionale.

Questo non con l’intento di generare un discrimine, ma per la salvaguardia della salute della classe arbitrale, e (immagino) anche per il messaggio che una disciplina sportiva intenda lasciar passare ai più giovani. Messaggio che non vuole e non deve essere quello di ricercare la magrezza estrema, ma quello di perseguire stili di vita sani e attivi in termini preventivi.

Invece sull’onda delle crociate attuali, e in un perenne cortocircuito, tutti pronti a inventare nuove terminologie per etichettare colpevolmente ciascun atto di semplice buonsenso. Anche una iniziativa come questa diventa uno scandalo.

Passa inosservato agli stessi amanti del politically correct che l’arbitra (scommetto un mese di stipendio che qualcuno si era indignato leggendo all’inizio “arbitro donna”, e non “arbitra”) abbia paragonato un problema di sovrappeso, dato clinico, al colore della pelle.
L’arbitra infatti prosegue nel suo sfogo paragonandosi a Paola Egonu, e aggiunge: “tu sei nera, io sono grassa”. Rapportando due aspetti che tra loro nulla hanno a che vedere e che, a mio avviso lasciano trasparire un problema che forse è peggiore del sovrappeso.

Quando la nota rivista di moda Vogue nel 2012 dichiarava “mai più modelle anoressiche sul nostro giornale”, o quando su Change.org si lanciavano petizioni per non far sfilare modelle taglia 34, non vi è stata (giustamente) nessuna alzata di scudi che difendesse il legittimo desiderio di ricercare una magrezza esasperata, perché una simile magrezza racchiude disagio, sofferenza, è speso figlia di un disturbo complesso della sfera psicologica e, soprattutto, incide gravemente sulla salute delle modelle, oltre a coinvolgere e lanciare messaggi sbagliati in chi le guarda.

Nessuno inventò il termine “magrofobia”.

Resta incomprensibile come mai ogni volta che a generare una condizione di potenziale disagio, sofferenza, con spesso un potenziale disturbo della sfera psicologica e, soprattutto, incide gravemente sulla salute oltre a lanciare messaggi sbagliati, è il sovrappeso e non la magrezza, ci si senta legittimati a invocare la discriminazione. In questo caso i neologismi si sprecano, ultimo nell’ordine la “grassofobia”.

In un Paese in cui più di un terzo della popolazione adulta (35,3%) è in sovrappeso, mentre una persona su dieci è obesa (9,8%) e complessivamente il 45,1% dei soggetti di età ≥18 anni è in eccesso ponderale (dati dell’Istituto superiore della Sanità), di tutto c’è bisogno tranne che far passare il messaggio che una condizione ai limiti dell’obesità possa essere una mera questione di accettazione.

Quindi no: non è un problema di discriminazione, non è paragonabile al colore della pelle, alle scelte religiose o ai gusti sessuali. È semplicemente un parametro statistico legato alla salute delle persone, come il colesterolo, l’ipertensione, la glicemia, o la probabilità di vincere al gratta e vinci.

E no, non si tratta di qualche cm o di qualche Kg in più, ma di qualche cm e qualche Kg in più, oltre un limite che è già esso stesso inclusivo e che se ogni volta viene spostato “di qualche cm”, diventa una misura tendente a infinito.

In caso contrario, tutte le volte che abbiamo 38 di febbre e ci viene raccomandato di restare a casa, potremmo sempre dire che in fin dei conti sono solo 2 gradi più della norma, non occorre discriminare e essere “caldofobici”.