Con la prima Convenzione dell'UNESCO dell'ottobre 2005 e la Dichiarazione di Copenaghen del gennaio 2006 contro il doping nello sport, 184 Paesi hanno sottoscritto il Codice mondiale antidoping della World Anti Doping Agency (WADA) impegnandosi a recepirne e applicarne i contenuti a livello nazionale. Il Codice, che è il documento tecnico attuativo del Programma mondiale antidoping WADA, fornisce il supporto normativo e disciplina la lotta al doping a livello internazionale, garantendo l'armonizzazione delle regole per tutti gli sport e in tutti i Paesi firmatari.
Oltre alla repressione del doping, i sottoscrittori si adoperano per attivare le sinergie necessarie a promuoverne l'eradicazione, sensibilizzando gli sportivi sui problemi conseguenti all'uso e all'abuso delle sostanze vietate attraverso iniziative di prevenzione, educazione, formazione e ricerca. La mancata sottoscrizione del codice da parte di un Paese ne preclude la partecipazione alle gare internazionali e alle olimpiadi.
Il doping in Italia è vietato sia in ambito sportivo, con il Regolamento antidoping del CONI che applica il Codice WADA, sia dall'ordinamento statale, con la legge n. 376/2000 "Disciplina della tutela sanitaria delle attività sportive e della lotta contro il doping".
Anche se le sostanze e le metodiche vietate sono le stesse, il mondo dello sport persegue soprattutto la frode sportiva esercitata attraverso l'assunzione di sostanze che migliorano le prestazioni agonistiche, mentre la società civile ha un'attenzione peculiare agli effetti dannosi che tali sostanze generano sulla salute, anche a lungo termine. Le sostanze e i metodi vietati sono elencati in una lista che la WADA stila e aggiorna ogni anno. Questa lista costituisce uno strumento attuativo del codice, in quanto l'uso, il possesso, la somministrazione e il traffico di quanto elencato costituiscono reato sia in ambito sportivo sia in campo penale. Vengono distinte le sostanze vietate solo durante la competizione sportiva e quelle proibite soltanto per alcuni sport.
Per facilitare il rispetto delle regole, la l. n. 376/2000 ha introdotto l'obbligo di applicare il “bollino doping” su tutte le confezioni di medicinali che contengono sostanze vietate. Oltre al bollino, sul foglietto illustrativo contenuto all'interno delle confezioni viene riportata la dicitura "contiene sostanze il cui impiego è considerato doping ai sensi della l. n. 376/2000".
La WADA prevede l'utilizzo di alcune sostanze vietate a fini terapeutici. Se un atleta soffre di una patologia per la quale la terapia include farmaci contenenti sostanze vietate, egli può richiedere “l'esenzione a fini terapeutici” compilando una scheda predisposta dalla WADA e allegando la documentazione medica attestante la patologia di cui soffre.
La violazione del regolamento sportivo prevede, in caso di positività al controllo antidoping, una sanzione corrispondente alla sospensione dall'attività agonistica per due anni e il ritiro di eventuali premi o medaglie vinti. Per garantire il corretto svolgimento delle gare, l'atleta è immediatamente sospeso e la sanzione viene erogata entro 60 giorni dall'esito positivo delle analisi. La violazione della l. n. 376/2000 costituisce reato penale punito con la reclusione da tre mesi a tre anni e con una sanzione pecuniaria. Tali sanzioni colpiscono, con i tempi della giustizia ordinaria, sia l'atleta sia colui che favorisce l'uso o il traffico illecito di sostanze vietate.
L’Agenzia mondiale antidoping (WADA) è una fondazione creata per volontà del Comitato Olimpico Internazionale (CIO) il 10 novembre del 1999 a Losanna per coordinare la lotta contro il doping nello sport. Dal 1 ° gennaio 2004 la WADA ha assunto il ruolo di coordinatore principale del sistema antidoping mondiale da parte della commissione medica del CIO. Da allora è responsabile della preparazione e la pubblicazione della lista delle sostanze proibite, che viene regolarmente aggiornata di anno in anno (tab.1). Il codice mondiale anti-doping afferma che una sostanza è inclusa nella lista delle sostanze proibite, se la WADA determina che la sostanza o il metodo soddisfa due dei tre criteri seguenti:
Inoltre, una sostanza o un metodo devono essere inclusi nella lista delle sostanze proibite se la WADA determina che non vi siano prove medico-scientifiche, effetto farmacologico o esperienza che la sostanza o il metodo abbia il potenziale per mascherare l'uso di altre sostanze vietate e metodi proibiti.
Con la prima Convenzione dell'UNESCO dell'ottobre 2005 e la Dichiarazione di Copenaghen del gennaio 2006 contro il doping nello sport, 184 Paesi hanno sottoscritto il Codice mondiale antidoping della (WADA) impegnandosi a recepirne e applicarne i contenuti a livello nazionale.Il Codice, che è il documento tecnico attuativo del programma mondiale antidoping WADA, fornisce il supporto normativo e regola la lotta al doping a livello internazionale, garantendo l'armonizzazione delle regole per tutti gli sport e in tutti i Paesi firmatari.
Oltre alla repressione del doping, i sottoscrittori si adoperano per attivare le sinergie necessarie a promuoverne l'eradicazione, sensibilizzando gli sportivi sui problemi conseguenti all'uso e all'abuso delle sostanze vietate attraverso iniziative di prevenzione, educazione, formazione e ricerca.
Da un punto di vista storico, il primo caso accertato di morte da doping risale al 1886, quando il ciclista gallese Arthur Linton morì a seguito dell’assunzione di trimetil nella gara Parigi-Bordeaux. Nel 1904 l’americano Thomas Hicks, dopo aver vinto la maratona olimpica di Atene, venne colto da un grave malore e morì in conseguenza dell’impiego di solfato di stricnina. La medesima sorte toccò a Dorando Petri nella maratona olimpica di Londra del 1908. Nel 1949, al termine della corsa ciclistica Milano-Rapallo, Alfredo Falzini morì a causa dell’ingestione di simpamina e steamina.
Nel 1960, alle Olimpiadi, il ciclista danese Hurt Hensen decedette per overdose da amfetamine. È tristemente famosa la morte del ciclista Tommy Simpson, durante il Tour de France del 1967, nell’ascesa al Mont Ventoux, causato dalle stesse sostanze. Ancora a causa delle amfetamine, nel 1968, si verificò la morte di un calciatore francese, Louis Quadri. L’esame della letteratura degli ultimi cinquant’anni dimostra che i casi di morti da doping accertati sono pochissimi.
Tali casi riguardano esclusivamente il mondo dello sport agonistico di vertice (professionismo), per motivi ovvi. Innanzitutto, è solo in tale ambito che si eseguono con regolarità controlli finalizzati alla lotta antidoping, con il duplice intento di evitare la frode sportiva e di salvaguardare la salute degli atleti. È, inoltre, evidente che episodi letali riguardanti sportivi professionisti hanno un’eco notevole ed innescano un percorso di indagine sulle cause della morte estremamente attento. Ciò avviene, invece, di rado per gli sportivi amatoriali, anche perché la pratica dello sport non sempre avviene con regolarità e continuità e la morte improvvisa di un “amatore” non desti particolari sospetti, perché difficilmente essa si attribuisce ai danni indotti dall’assunzione di sostanze dopanti. Infatti, non sono documentati morti per doping nello sport amatoriale. Va sottolineato che anche nello sport dilettantistico sono riportati casi di decessi riconducibili con certezza, o quantomeno con alta probabilità, agli effetti derivanti dall’utilizzo di sostanze o pratiche dopanti.1
Nel 1990 è stato documentato il caso di un sollevatore di pesi ventunenne deceduto durante la pratica sportiva a seguito dell’impiego di steroidi anabolizzanti. Il giovane, durante un allenamento in palestra, è andato incontro ad un collasso, e nonostante tentativi di rianimazione è deceduto per fibrillazione ventricolare.
Dalle indagini testimoniali si è appreso che il soggetto aveva fatto uso di testosterone e nandrolone per via parenterale. All’autopsia è risultata una notevole ipertrofia cardiaca, con estese aree di miocardiosclerosi (soprattutto subepicardica ed a carico del setto); inoltre istologicamente è stato possibile evidenziare piccole aree caratterizzate da necrosi delle miofibre, con infiltrato neutrofilo. Gli autori ipotizzano che l’impiego di steroidi anabolizzanti abbia determinato un rapido incremento della crescita del cuore, al quale non è corrisposta un’adeguata vascolarizzazione, risultandone, pertanto, un deficit ischemico che si è tradotto nelle lesioni sopra indicate.2
Come non ricordare il riferimento del pugile di 31 anni, il quale, deceduto pochi giorni dopo l’interruzione della pratica agonistica, a causa di uno scompenso cardiaco acuto, conseguente ad intossicazione da cocaina assunta per via endovenosa. Le indagini necroscopiche, istologiche e tossicologiche hanno evidenziato, sostanzialmente, un quadro di ipertrofia cardiaca, dilatazione dei tratti prossimali dei vasi coronarici con ispessimento della tonaca intima e media, diffusa necrosi miocardica focale, in soggetto dedito all’assunzione voluttuaria di cocaina (come emersa dall’indagine sui capelli). Il caso in questione si propone come esempio atipico di morte da doping, perché l’uso della cocaina, come innanzi accennato, era motivato da finalità voluttuarie, e non alla ricerca di migliori performance sportive.
Vero è , tuttavia, che le sostanze stupefacenti, al di là del discutibile effetto sulle prestazioni agonistiche, rientrano tra quelle “vietate” , e pertanto, qualora usate da sportivi, configurano indiscutibilmente situazioni di doping.3
Ancora nel 1993 Kennedy e Lawrence hanno riportato il caso di due calciatori australiani, rispettivamente di 18 e 24 anni, utilizzatori di steroidi anabolizzanti, deceduti in allenamento per scompenso cardiaco acuto. Il più giovane mostrava una cardiomiopatia ipertrofica, il secondo, una miocardite; in entrambi, l’albero coronarico era esente da lesioni aterosclerotiche e da formazioni trombotiche.
Gli Autori ipotizzano che gli steroidi hanno causato, nel soggetto diciottenne, un incremento delle dimensioni cardiache ed una maggiore responsività alle catecolamine, con innesco di un’aritmia fatale; nel secondo, i cambiamenti infiammatori hanno costituito verosimilmente un focus aritmogeno.4
Nel 1998 altri ricercatori hanno descritto un altro caso di morte da doping in un culturista. Si trattava di un soggetto di 23 anni, che aveva fatto uso di steroidi anabolizzanti per un periodo di circa 9 mesi e che è deceduto improvvisamente. All’autopsia si è rilevata ipertrofia cardiaca, dilatazione del ventricolo destro, ispessimento focale dell’endocardio e flaccidità del fegato; istologicamente i caratteri salienti erano rappresentati da ipertrofia delle miofibre, necrosi miocardica focale e steatosi epatica.5
Sono state rinvenute anche altre informazioni inerenti casi di morte da doping in sportivi non professionisti. Ulteriori filoni di approfondimento e riflessione possono riguardare la caratterizzazione delle morti da doping acute e a distanza di tempo (sulla base dell’assunto che le pratiche dopanti possono produrre alterazioni non immediatamente letali, ma che innescano o accelerano altre patologie mortali). Così come è di sicuro interesse il tema dei danni non mortali da doping, sia acuti sia cronici, eventualmente anche alla luce di problematiche di tipo risarcitorio.