Ad oggi, la cirrosi biliare viene diagnosticata più precocemente rispetto al passato con circa il 50-60% dei pazienti che sono asintomatici al momento della diagnosi (Prince et al., 2004). La diagnosi viene posta sulla base di tre criteri principali:
La presenza di due criteri su tre consente di porre una diagnosi di probabilità di malattia, mentre è necessaria la contemporanea presenza dei tre criteri per porre una diagnosi di certezza. La biopsia epatica, ritenuta superflua da alcuni patologi, permette altresì di studiare la patologia e di avere un punto di riferimento iniziale per la valutazione della risposta terapeutica al trattamento.
Gli AMA sono presenti nel 90-95% dei pazienti affetti da cirrosi biliare e spesso sono dosabili nel sangue già diversi anni prima della comparsa della sintomatologia clinica (Kaplan et al., 2005). Il target principale degli anticorpi anti-mitocondrio è rappresentato dalla subunità E2 del complesso della piruvato deidrogenasi (PDC-E2).
Tale complesso è situato nella matrice mitocondriale e catalizza la reazione di decarbossilazione ossidativa che trasforma il piruvato in acetil-CoA.
La cirrosi biliare è suddivisa in quattro stadi non sempre nettamente distinti e solo l'ultimo di questi corrisponde ad una vera cirrosi. Solitamente le lesioni epatiche non sono uniformemente distribuite nell'intero fegato, pertanto in una biopsia possono essere contemporaneamente presenti quadri istologici imputabili a tutti gli stadi (Kaplan et al., 2005).
Nello stadio I c'è una lesione florida dei dotti biliari con infiammazione a placche e distruzione dei setti e dei dotti biliari interlobulari; si possono formare dei granulomi.
Nello stadio II si verifica una proliferazione duttulare: gli spazi portali diventano distorti, l'infiammazione si estende al parenchima, i dotti biliari proliferano intensamente e si sviluppa una fibrosi periportale.
Nello stadio III continua la cicatrizzazione con una minore proliferazione dei dotti biliari e minori segni di infiammazione; dei tralci fibrosi collegano gli spazi portali e si osservano la colestasi e i corpi ialini di Mallory.
Nello stadio IV è presente una cirrosi dura, regolare e con intensa impregnazione biliare e noduli di rigenerazione, difficile da distinguere dalle altre forme di cirrosi, in assenza dei granulomi.
Il decorso della cirrosi biliare è sì progressivo, ma alquanto variabile. Per diversi anni la patologia non interferisce con la qualità della vita e i soggetti asintomatici sviluppano generalmente la sintomatologia in un periodo variabile dai 2 ai 7 anni circa. Esiste comunque molta variabilità tanto che alcuni pazienti asintomatici possono non avere segni di progressione per una decade o più, mentre altri muoiono per insufficienza epatica nell'arco di 5 anni dopo i primi segni di malattia.
La possibilità di una diagnosi precoce e di un conseguente intervento terapeutico ha migliorato recentemente la prognosi di questi pazienti. La terapia si avvale principalmente sull'uso dell'acido ursodesossicolico (ursodiolo) che, secondo alcune casistiche, determina una risposta nel 25-30% dei soggetti trattati, con normalizzazione degli enzimi epatici o miglioramento del quadro istologico epatico (Leuschner et al., 2000).
L'ursodiolo però non è in grado di arrestare la progressione della cirrosi biliare e pertanto l'unica cura efficace è il trapianto di fegato. I risultati del trapianto sono di solito eccellenti e la sopravvivenza è superiore a quella dei pazienti sottoposti a trapianto per altri tipi di malattia epatica terminale. La recidiva di cirrosi biliare dopo il trapianto colpisce un numero limitato di pazienti seppure la maggior parte dei soggetti rimanga positiva per gli anticorpi anti-mitocondrio dopo il trapianto.